Ida Bauer oltre il caso Dora: una conversazione con Katharina Adler

Non capita tutti i giorni di imbattersi in quei rari e strani crocevia tra letteratura e vita. Lo sa bene Katharina Adler, scrittrice tedesca di recente pubblicata anche qui in Italia, che nel suo romanzo storico Ida ripercorre per frammenti la vita di Ida Bauer, sua bisnonna, tra l’infanzia a Vienna e l’esilio in America. Conosciuta ai più come la Dora dell’omonimo caso clinico di Freud, Ida Bauer si rivela invece una figura emblematica della prima metà del Novecento. Figlia di un industriale di origini ebraiche, membro attivo della borghesia viennese e sorella di Otto Bauer, uno dei principali iniziatori dell’austromarxismo, Ida trascorse l’infanzia nell’ultimo afflato dell’impero asburgico, tra l’alba della psicanalisi e le ceneri del mito dell’Austria felix, prima di lasciarsi tutto alle spalle dopo l’avvento del nazismo per fuggire negli Stati Uniti.

Con un simile bagaglio di esperienze sembra quindi paradossale che la figura dietro il mito, la donna in carne e ossa dietro il fantasma freudiano dell’isteria, sia sempre rimasta in disparte. Ma è proprio qui che entra in scena il romanzo di Adler, che attraverso anni di ricerche metodiche e puntuali ripercorre i trascorsi di Ida-Dora fuori dalle trappole della psicanalisi, per restituirla alla vita che il resoconto clinico le aveva tolto. Abbiamo avuto modo di conversare con Katharina Adler durante la sua permanenza al festival goriziano èStoria, dove l’autrice ci ha raccontato il suo percorso di stesura del romanzo e il suo rapporto con la memoria di Ida.

Katharina, ciao, innanzitutto ti ringrazio di essere qui. Parlare con te del caso Dora, che mi è molto caro, proprio qui a Gorizia, uno dei luoghi dove ha avuto inizio la rivoluzione basagliana, ha una forte valenza simbolica per me. Iniziamo con le domande facili: quando ti sei imbattuta nel caso Dora e quando hai scoperto che si trattava della tua bisnonna?

K.A.: La prima volta che mi sono imbattuta nel caso Dora è stato quando avevo quindici o sedici anni. Mia madre me lo disse senza pensarci troppo su, del tipo: “Oh, a proposito, la tua bisnonna è stata un caso clinico di Freud piuttosto importante, il caso Dora”. Lo trovai interessante, ma non lo approfondii – più che altro perché Freud era già diventato una figura riconosciuta, quasi un’icona pop, ma a parte quello all’epoca non lessi nulla, pensai che fosse una cosa curiosa e basta. Oltretutto nemmeno la mia famiglia ne sapeva granché, fu solo per caso che venimmo a sapere che Ida era il caso Dora. Nel 1979 uno psicanalista chiamò mio padre e gli disse: “Sa, sua nonna era il caso Dora e mi piacerebbe scrivere un articolo scientifico in merito, mi può raccontare qualcosa su di lei?”. Mio padre era sbalordito, non ne aveva idea – conosceva molto bene il caso, l’aveva letto ai tempi dell’università, ma non sapeva che si trattasse di storia familiare. Al che rispose che quella era una novità e chiamò mio nonno, il quale replicò di essere stato contattato anche lui dallo psicanalista, ma che non gli avrebbe detto niente. Questa fu l’ultima conversazione che mio padre ebbe con suo padre, quindi a oggi non saprei nemmeno dire cosa sapesse mio nonno su sua madre – e forse non lo sapeva neanche lui.

Come ti sei mossa nella stesura del romanzo? Hai svolto ricerche negli archivi di famiglia, hai letto articoli scientifici sul caso o le iterazioni letterarie che ne sono scaturite dopo?

K.A.: Sì, direi che continua la domanda precedente, perché a quindici-sedici anni non ero realmente interessata all’argomento, o perlomeno sì, lo ero, ma non abbastanza da leggere il resoconto di Freud. Ho incontrato di nuovo il caso Dora una volta all’università, dove ho studiato letteratura americana, e lì il testo freudiano ha avuto tutta un’altra ricezione rispetto ai Paesi di lingua tedesca.

Forse anche in Francia, data l’influenza della scuola lacaniana?

K.A.: Sì, esatto, ma per ovvie ragioni l’ambito di ricerca sul caso Dora e sugli inizi della psicanalisi non è così vasto, dal momento che la psicanalisi, che era una disciplina composta prevalentemente da intellettuali ebraici, è stata completamente spazzata via dai nazisti. Ho avuto anche difficoltà con la ricerca, perché il punto di partenza da cui mi sono mossa è stato proprio la letteratura anglofona. Non c’erano archivi di famiglia, come si può anche leggere nel romanzo la mia bisnonna è dovuta fuggire in circostanze atroci, e anche se mio padre era emigrato prima di lei si era lasciato tutto indietro perché non potevano portare così tante cose con sé negli Stati Uniti. Non c’è stato nessun archivio, però ho avuto modo di fare molte ricerche attraverso il fratello di Ida, Otto Bauer, un politico di spicco che ha lasciato molte testimonianze scritte. La sua vita è ben documentata, a Vienna e Amsterdam ci sono due suoi lasciti grazie ai quali sono riuscita a trovare delle lettere di Ida. Così attraverso quei documenti ho tracciato il suo percorso di emigrazione, e penso che nessuno prima di me l’abbia fatto. Peraltro ci sono anche delle interviste alla Biblioteca del Congresso di Washington, dove Elsa, la cugina di Ida, e il piccolo Otto Zellenka hanno risposto a delle domande su Ida. E queste carte sono state rese accessibili appena nel 2017.

Recentissime, quindi. Ma hai avuto modo di consultarle durante la stesura del libro? Ho letto che la ricerca è durata sei anni.

K.A.: Anche di più! In realtà ho potuto consultare questi documenti di Freud alla Biblioteca del Congresso solo all’ultimo minuto, quando stavo finendo il libro. Sono rimasti inaccessibili al pubblico per oltre settant’anni, ma una volta letti ho trovato un paio di cose che ho poi inserito nel romanzo proprio mentre lo stavo ultimando.

Il tuo libro è stato scritto per frammenti, proprio come i frammenti del caso Freud. Tuttavia sei stata tu a ordinare la sua vita, non attraverso un rapporto di causa-effetto ma attraverso un percorso di fuga dal suo strano destino poetico, perché Ida è diventata praticamente un mito per la critica femminista dagli anni Settanta in poi. Ad esempio, la pièce di Cixous mi è piaciuta molto, così come il romanzo di Yuknavitch, anche se entrambi sono incentrati sul solo caso. Insomma, è quasi paradossale avere un canone su un’eroina di cui in realtà non si sa nulla.

K.A.: Esattamente, è stato uno dei motivi che mi hanno spinta a scrivere il romanzo. Quando ho letto tutta questa letteratura, i testi teatrali e visto i film, ho capito che erano tutti concentrati su Dora e sul caso clinico, ed era giusto così, ma al tempo stesso la sua vita è continuata, ha lasciato un’eredità…

Ida ha assistito di persona a così tanti eventi storici – gli accadimenti della Vienna dell’epoca, i tumulti politici, le sollevazioni – e poi ha vissuto l’esilio negli Stati Uniti. Com’è stata la tua esperienza nel riordinare la sua vita, nel cercare un filo conduttore che legasse queste esperienze così eterogenee?

K.A.: Innanzitutto, ed è un elemento che hai già menzionato – e sono davvero felice che tu l’abbia fatto – è che non volevo scriverlo in ordine cronologico, proprio per evitare questo rapporto consequenziale di causa-effetto. Il romanzo inizia quando Ida se ne va da Vienna, quasi a voler fuggire da questa fama che ha. Inoltre, in un certo senso è stato proprio Freud a dare inizio a quest’idea secondo la quale è possibile spiegare tutti i comportamenti della vita adulta attraverso l’infanzia; e anche se non credo di volerla leggere a un livello più approfondito penso ci sia una certa parte di verità. Voglio dire, è quando si viene a formare il carattere e quant’altro, ma d’altra parte penso anche che siamo capaci di libero arbitrio, abbiamo la facoltà di scegliere se lasciarci alcuni avvenimenti alle spalle o meno, ed era anche importante per me… Non volevo che il lettore si approcciasse al romanzo, leggesse dell’infanzia di Ida e della sua parentesi da Freud per poi inferire che ah, ecco perché è diventata così. Ovviamente nel mentre sono tutti già abituati a mettere in ordine i pezzi secondo il resoconto clinico, e si pensa al caso anche quando ancora non lo si legge, specialmente all’inizio. Ma nella parte centrale, quando si ripercorre la sua infanzia, si tende a dedurre che ah, ecco perché a volte ha dei modi così bruschi, ma è qualcosa che succede nella mente dei lettori, e che quindi io non posso controllare attraverso il modo in cui racconto la sua storia.

Ma al tempo stesso la vita e la letteratura accadono in modo completamente diverso dai casi clinici. Da una parte c’è la psicanalisi, che è raccontata quasi come un giallo – e ci sono stati dei romanzi, come Musica di Mishima, che hanno sviluppato i rapporti tra analista e paziente secondo le convenzioni del thriller, ma approcciarmi a Ida è stato interessante per l’approccio biografico, perché se da un lato sono affascinata dal caso, dall’altro mi sono affezionata molto alla persona e ai suoi trascorsi.

K.A.: Oh, ma è fantastico!

Oltretutto nel romanzo il caso Freud rimane sospeso, non lasci nessuna rielaborazione sull’accaduto, lo racconti e poi procedi con la narrazione. L’obiettivo non è tanto ricercare un senso in quella parte della sua vita, ma nelle esperienze successive.

K.A.: Proprio così. Mentre stavo scrivendo il libro, continuavo a pensare che la vita di questa donna valesse la pena di essere raccontata con o senza Freud. Capisco che sia un episodio divenuto noto, ma tutti gli altri avvenimenti a cui ha assistito, ha visto così tante cose – è stata testimone di tanti eventi politici importanti, persino la sua fuga in Francia e a Casablanca e negli Stati Uniti… vale davvero la pena raccontare tutto questo, ed era tutto altrettanto importante per me. Non si tratta di dire che l’episodio di Freud non lo sia, voglio dire, è al centro del romanzo, ovviamente è un capitolo importante della sua vita, ma non è l’unico. Diventa quasi una contronarrazione, perché il caso Dora è un’opera di finzione scritta da Freud agli inizi della sua carriera per provare le sue teorie, e Dora è una marionetta di cui si serve. È così che mi sono approcciata al caso: come un’opera di finzione, come qualcosa che è stato scritto attraverso la lente del solo Freud e che non assume mai la prospettiva della sua paziente. Per questo nei capitoli su Freud volevo che la voce narrante fosse al cento per cento di Ida, e che Freud passasse in secondo piano. Ad esempio, tutto quello che dice Freud è scritto come discorso indiretto, ed è qualcosa che ho fatto di proposito, affinché nel loro dialogo ci fosse solo la voce di lei.

Ho notato anche che molte delle tematiche affrontate negli articoli scientifici e in letteratura sono raccontate attraverso le parti biografiche, come il legame tra Ida e Pepina, i ruoli di genere o le trappole della società borghese. È affascinante come nel tuo libro questi elementi siano stati trattati al di fuori del caso, portando il lettore a riflettere sull’esperienza diretta delle persone coinvolte e non sul racconto di Freud o della letteratura psicanalitica.

K.A.: Sì, e ho anche scoperto un’altra cosa interessante. Come ho già accennato prima, mi sono servita del caso clinico come fonte per ciò che dice Freud, e che ho lasciato fuori dall’intreccio per permettere un’identificazione maggiore con il punto di vista di Ida, che all’epoca era appena una ragazzina. Ma quando poi ti accorgi di cosa stia accadendo, che situazione inaccettabile sia – c’è una complicità patriarcale così ovvia, e un particolare che non ho mai visto menzionato negli articoli scientifici è che fu proprio Hans Zellenka a portare da Freud prima il padre di Ida, Philipp Bauer, e poi lei. Fu così che lei arrivò a Freud, fu Hans Zellenka, il suo aggressore, a portarla da Freud in qualità di paziente per non essere ricattato, perché era lui la fonte di guadagno. Sono tutti complici, e volevo che fosse evidente.

C’è una frase molto calzante tratta da una raccolta di Lea Melandri, giornalista e saggista italiana, che nel suo “Dora, Freud e la violenza” scrive un passaggio che penso sia cruciale per l’interpretazione della storia: “Perversione e normalità diventano per la donna i limiti storico-culturali contro cui si scontra precocemente il suo sviluppo sessuale e intellettuale”. C’è anche quest’altra frase, che è qualcosa che hai scritto anche tu nel romanzo, seppure in un altro modo: “A conclusione dei suoi stupori, dei suoi dubbi, delle sue felici intuizioni, Freud cade in una di quelle interpretazioni che avrebbero fatto esclamare a Dora: E dove sarebbero questi gran risultati?”.

K.A.: (Ride) Sì, è proprio così!

Tornando alla questione dei ruoli di genere e alle divergenze tra i personaggi, che sono un tema che hai eviscerato molto nel romanzo: oltre ai rapporti tra Ida e Otto, tra Ida e Helene, o Ernst e Otto, ci sono tutte queste figure così agli antipodi per temperamento, ideali politici, opinioni e aspirazioni. Sono forse degli archetipi umani dell’epoca?

K.A.: È una bella domanda. Penso che sì, questi archetipi si possano riscontrare, ma non è una soluzione narrativa su cui io abbia lavorato consapevolmente. Ho svolto le mie ricerche nella maniera più metodica possibile, ad esempio Ernst, il marito di Ida, tenne delle interviste sulla propria vita per l’Università di Berkeley, e sono una delle mie fonti principali per la ricostruzione del suo carattere e dei suoi ideali. Non c’è stato un processo del tipo “bene, siccome Otto è un rivoluzionario allora lui dovrà essere un monarchico”, è successo e basta, ed è affascinante da notare. Penso che dimostri come quell’epoca fosse un crocevia di tutte queste differenze politiche su come il mondo dovesse continuare, se attraverso la tradizione, la rivoluzione o nuove vie democratiche, e probabilmente simili dispute erano presenti in ogni famiglia. Quindi sì, è successo, ma probabilmente è successo perché era semplicemente il modo in cui la gente pensava all’epoca.

Un piccolo universo dentro un universo.

K.A.: Esatto.

Ci sono stati dei momenti o delle parti in cui ti sei concessa delle libertà creative, o in cui avresti desiderato un esito diverso, o è un romanzo che si attiene completamente alla realtà?

K.A.: È una domanda in due parti. Ho cercato di mantenermi il più fedele possibile alla realtà attraverso la mia ricerca, ma ci sono delle cose nel romanzo che ho alterato di poco per ragioni narrative o per uno storytelling migliore. Dettagli minimi, in realtà, ad esempio la lite con la cugina Elsa, che è accaduta e che è rimasta in sospeso per anni fino alla loro definitiva riconciliazione, ma che nel romanzo ho scelto di raccontare in un momento diverso perché mi sembrava si inserisse meglio nella trama. Quindi sì, ci sono state delle piccole variazioni, ma avrei mai desiderato un esito diverso? No, sono un po’ fatalista in questo, perché cambierebbe anche la mia vita… Ci sono stati dei momenti davvero intensi, mentre svolgevo le mie ricerche. Per esempio, quand’ero a Vienna, negli appartamenti in cui viveva la mia famiglia, la vecchia casa di mio nonno, che conoscevo bene quand’ero bambina, e c’è stato questo momento in cui ho realizzato di non avere radici a Vienna, di non conoscere nessuno, ma che la mia intera famiglia sarebbe rimasta lì se non fosse stato per Hitler e per il nazismo. Sarebbero ancora stati lì, e sarebbe tutto diverso, non so nemmeno se sarei nata, perché – ci sarebbe stato qualcun altro al posto mio, ma è… te l’ho detto anche prima, non c’erano archivi, lasciti o ricordi di famiglia, è stato tutto spazzato via, e in quel momento la cosa mi colpì tantissimo. La prima metà del XX secolo ha avuto un tale impatto, seppure indiretto, sulla mia vita, ma avrei davvero voluto cambiarlo? Voglio dire, un Novecento senza nazismo sarebbe stato qualcosa di completamente diverso, ma è qualcosa di troppo grande da immaginare per una sola persona.

Ti è mai successo, durante la stesura del romanzo, di vedere la tua vita attraverso gli occhi di Ida? Di trovare delle nuove linee di significato nella tua vita, delle continuità?

K.A.: La cosa buffa è che non mi è successo mentre stavo scrivendo. Al di là della parentesi più emotiva a Vienna ero molto concentrata sul lavoro, sul raccogliere più informazioni possibile nel modo più ordinato possibile. Scrivere un romanzo del genere ha richiesto molta fatica, anche per capire come volessi scriverlo. Durante la stesura ho avuto un approccio estremamente razionale, perché volevo portare a termine il progetto nel migliore dei modi e senza nessun ripensamento sulla struttura del testo – volevo scriverlo bene, e volevo raccontare Ida nel modo più preciso possibile. Non ho voluto cambiare nulla per lei, e per me raccontare la sua storia è stato più importante che raccontare le mie emozioni. Ma ora che l’ho terminato e che è stato pubblicato c’è qualcosa che risuona profondamente in me, è ora che stanno affiorando le emozioni. Penso a tutto quello che le è successo e all’impatto che ha avuto su di me, ma lo sto capendo solo ora.

Sì, capisco. C’è una filosofa italiana, Adriana Cavarero, che ha scritto questo testo splendido intitolato Tu che mi guardi, tu che mi racconti, che parla dell’importanza del racconto dell’altro nell’elaborazione del soggetto che tramite la narrazione riceve un ordine nella propria vita. È nel dipanare i fili della narrazione dell’altro che è possibile tracciare delle direttrici, ma è uno strano processo di scambio e influenza reciproca in cui poi la storia dell’altro rimane con noi. E del tuo romanzo mi è piaciuto come la narrazione fosse un atto sentimentale di tenerezza e di ricordo, e non una narrazione clinica, come quella freudiana, concentrata sul racconto dell’altro come emanazione del sé.

K.A.: Assolutamente. Ti dirò che c’è stato un momento, quando avevo appena iniziato a progettare il libro, in cui ho accarezzato l’idea di inserire anche me stessa nella storia – ovviamente non so dirti come, perché non l’ho fatto, ma ho scelto di non farlo per una ragione. Ovviamente ci sarebbe stato il mio nome come autrice, e le persone avrebbero saputo che sono la bisnipote di Ida – del resto non volevo che fosse un segreto, ma oltre a ciò la sua storia, con o senza Freud, è così importante da raccontare, e vorrei davvero essermi imbattuta prima nelle sue vicende personali, anche se non fosse stata una mia parente, perché volevo davvero mettermi al servizio di questa donna a ogni costo, e se sono questioni familiari o no a un tratto non importa più.

È molto dolce. Com’è stato accolto il romanzo? Il pubblico ha dimostrato più interesse per il caso Dora o ha gradito anche i temi più ampi?

K.A.: Penso non ci sia una risposta univoca. Da un lato ci sono state queste persone che pensavano che la parte di Freud fosse interessante, ma si chiedevano perché avessi raccontato anche il resto della storia, però erano una minoranza. E poi c’è stato questo gruppo di lettori molto affascinati dagli aspetti politici della storia, perché magari erano interessati a Otto Bauer ma non avevano una visione d’insieme di lui come politico. Come hai detto, il capitolo su Freud è ovviamente interessante e importante, ma lo è anche il resto della sua vita, e ci sono stati alcuni critici che si sono domandati come mai avessi scelto di raccontare anche il resto, perché secondo loro non ne valeva la pena. Devo dire che mi è dispiaciuto un po’.