Ladislav Mňačko: raccontare il male da partigiano ferito

Ero un giovane adolescente al mio primo anno di studi di liceo classico, un ragazzino che doveva fronteggiare le sue difficoltà con il greco: il mio professore di lezioni private, divenuto poi uno dei miei migliori amici, mi diede in prestito un libro, aggiungendo che ci fossero enormi possibilità di essere praticamente gli unici lettori italiani di questo tomo, polveroso, vissuto, fiero nella sua bellezza di libro usato. Il libro era di Ladislav Mňačko, autore cecoslovacco, il titolo era La morte si chiama Engelchen. Allora non avevo idea cosa fosse la letteratura (e la lingua) di quest’area geografica. Allora non sapevo che stavo per leggere un libro importante, diretto, che ancora oggi bramo di rileggere.

L’autore, Ladislav Mňačko, nato a Valašské Klobouky (in Moravia Meridionale, nella regione di Zlín) prima di essere un partigiano antinazista, si trovò per anni in un campo di concentramento tedesco, dopo essere stato arrestato sul confine tedesco-olandese. Alla fine della guerra si iscrisse al Partito Comunista e divenne uno dei giornalisti di punta, principalmente come corrispondente estero, fino alla sua totale disillusione verso il comunismo, che lo portò ad essere annoverato come oppositore del regime. Dopo il 1968, quando già gli era stata negata la cittadinanza cecoslovacca, le sue opere furono bandite, fu espulso dall’Unione degli scrittori cecoslovacchi e si stabilì in Austria, tornando in Cecoslovacchia nel 1989 per opporsi alla divisione tra i due paesi, episodio politico che lo fece stabilire – per protesta – a Praga, per poi tornare in Slovacchia nei suoi ultimi giorni di vita, finalmente in pace con la sua terra d’appartenenza.

 

Non so se questo articolo potrà essere un ritrovo dei lettori italiani di Smrť sa volá Engelchen, pubblicato nel 1959 (approfittando di un periodo con minor controllo da parte del partito comunista), tra l’altro primo romanzo di Ladislav Mňačko, ma la solita speranza è che di nuovi lettori ce ne siano ancor di più: il romanzo ripercorre le vicende autobiografiche dell’autore, che appunto fu partigiano durante l’occupazione nazista nell’allora Protettorato di Boemia e Moravia. Non solo: lo fu in uno dei luoghi chiave della testimonianza degli orrori nazisti nelle terre cecoslovacche, ossia l’insediamento di Ploština, nel villaggio di Dvornice, situato nella parte morava dell’attuale Cechia. Nell’aprile del 1945 il commando speciale antipartigiano delle SS, l’Antipartisaneneinheit Josef, aiutato da un infiltrato della Gestapo tra le file dei partigiani, diede alle fiamme l’insediamento, bruciando con esso ventiquattro persone, che sommate alle tre giustiziate e a quella torturata fino alla morte, portarono ad un totale di ventotto vittime, il tutto perché i nazisti sapevano che i partigiani cecoslovacchi erano sempre più forti, foraggiati dall’esercito sovietico con cibo ed armi, pronti a concludere il secondo conflitto mondiale con una vittoria.

Conosciamo moltissimi romanzi e poesie ambientate durante le due guerre, nello specifico non mancano i casi letterari che approfondiscono gli episodi di partigianeria, Italia compresa: sappiamo dunque benissimo che la crudezza e le testimonianze degli orrori sono temi ricorrenti nella letteratura di questo genere. Ciò che colpisce ne La morte si chiama Engelchen non è tanto il contesto, quanto il lavoro di scandagliare nella psiche dei personaggi, che dunque oltre a far parte degli avvenimenti bellici hanno la possibilità di essere inquadrati da una precisa lente di ingrandimento: Voloď, protagonista ed alter-ego dell’autore, che giace sul letto di un ospedale e cerca di ricordare gli avvenimenti strazianti da lui vissuti, diventa così la testimonianza-manifesto dell’indole partigiana, antinazista fino al midollo, ferito nel corpo ma mai nello spirito combattivo, determinato nel voler terminare l’esistenza del suo mortale nemico; mentre Marta, interprete ceca per i tedeschi dell’esercito di Hitler, è ferita nell’animo per quel suo corpo che è costretta a dare in cambio delle preziose informazioni per le vittorie partigiane. Engelchen è l’ufficiale nazista che ferisce Voloď quasi mortalmente ed è persino l’amante di Marta, la donna che Voloď ama. Engelchen rappresenta tutto ciò che è male in questo romanzo, dà il nome alla morte perché è colui che ordina il massacro di Ploština, ma è anche colui che ferisce i cuori dei due protagonisti. E la bravura di Mňačko è tutta qui: riuscire a lavorare su due piani apparentemente lontani, un intreccio amoroso nel bel mezzo degli orrori del conflitto mondiale, senza forzate caricature e facendo trasparire al lettore la desolazione del sentimento, impotente contro il male e contro la morte. Dopo aver incontrato l’amata Marta, incapace di provare sentimenti e desiderosa solo di andare via lontano da tutto, il protagonista riesce a rimettersi in piedi, malconcio e zoppicante, con una sola intenzione: spezzare la catena del male eliminando Engelchen, concludendo una volta per tutte le violenze subite.

Nel libro non mancano scene violente commesse dagli stessi partigiani, che danno la morte anche a quei nazisti dipinti dall’autore con un lato umano, padri di famiglia con interessi culturali, giustiziati per aver scelto di aderire ad una causa sbagliata. Spesso con i tedeschi a finire sotto la scure partigiana ci sono anche cecoslovacchi, spie e collaborazionisti; tutte le persone che lavorano per i nazisti diventano nemiche, il che rende ancora più cupa l’atmosfera di lotta senza frontiere descritte nelle pagine del romanzo. Assistiamo quindi a un vortice di emozioni, non contrastanti, ma che conducono a una profonda riflessione sulla difficoltà di amare nei tempi dove la morte detta legge, tempi dove anche la fiducia è una conquista ardua: raccontare tutto su un letto ospedaliero assistito da una suora e da un dottore fa di Voloď un personaggio sconfitto, impotente, che deve riprendersi dalle ferite del corpo e dell’anima, come se gli restasse solo l’animo – quello partigiano. La morte si chiama Engelchen è un romanzo necessario per capire gli attimi immediatamente successivi alla vittoria partigiana, una vittoria ottenuta con un bagaglio di violenze viste e vissute, bagaglio che pesa quando – una volta finita la guerra – è necessario ricominciare a camminare per un nuovo ignoto cammino. La difficoltà concreta, quindi, sta nel realizzare l’effettiva fine della guerra, una realizzazione che il protagonista non sembra aver ottenuto, vista la volontà di continuare il ciclo di violenze, andando a cercare la sua nemesi. Tuttavia, l’interpretazione può essere diversa: l’andare a cercare quella che è l’incarnazione del male può anche significare la volontà di eliminare il male dal mondo in nome di una giustizia superiore. Uccidere Engelchen per evitare nuovi Engelchen. Ciò si allontanerebbe, o meglio ancora, toglierebbe il giusto peso alla vicenda personale dei due amanti, e quindi andrebbe visto più come atto di fede, per ristabilire i giusti equilibri. Il dottore e la suora che aiutarono Voloď si lasceranno sfuggire che Engelchen è solo uno dei tanti nomi che la morte possiede. Vale la pena chiedersi: eliminare Engelchen eliminerebbe davvero il male sulla terra? O si tratta, più umanamente, di gelosia e virilità che emerge?

 

 

La morte si chiama Engelchen suscitò l’interesse cinematografico di Ján Kadár ed Elmar Klos, che realizzarono una pellicola di 111 minuti riscuotendo un grande successo, anche il Golden Prize del Festival di Mosca del 1963. I due registi, che arricchirono il film di scene sperimentali, rispettando l’espediente narrativo del flashback, furono decisamente fedeli all’opera dello scrittore slovacco, anche in nome del legame tra partigiani che univa i registi e Mňačko: gli artisti erano determinati a voler mostrare qualcosa che si tendeva a nascondere, ossia una vittoria ottenuta con la sofferenza, per nulla eroica, senza macchie e gloriosa come la propaganda voleva far credere. Raccontare questa storia da un letto ospedaliero rende l’idea come nulla avrebbe potuto.

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