Strajk Kobiet e l’arte di protesta: una conversazione con Ola Korbańska

A distanza di più di un anno dall’inizio dell’Ogólnopolski Strajk Kobiet, la mobilitazione di massa per il diritto all’aborto in Polonia, le manifestazioni non accennano a fermarsi. Avevamo già trattato l’argomento in precedenza, tra aggiornamenti social, testimonianze raccolte direttamente dalla strada e un’analisi del ruolo femminile e della sua decostruzione in storia, cultura e arte contemporanea, ma la particolarità più straordinaria delle proteste di Strajk Kobiet è il linguaggio incredibilmente specifico, metaletterario e continuamente in evoluzione. Attraverso giochi di citazioni, rimandi, meme e slogan, la partita si gioca su un terreno di riferimenti culturali ben radicati nella coscienza polacca, che vengono costantemente risemantizzati in quella che può essere definita una performance collettiva particolarmente duratura.

Quando sono venuta a conoscenza dell’opera di Ola Korbańska, artista multidisciplinare che si occupa di transitorietà e percezione sociale attraverso gli oggetti, sono rimasta molto colpita dalla sua performance Gentle Protest, che offre allo spettatore una riflessione quasi complementare sulla natura delle proteste e sulla loro modalità. Quest’intervista si sarebbe dovuta svolgere lo scorso anno, durante i mesi di fuoco scatenati dalla decisione della Corte costituzionale polacca, ma per una serie di circostanze sfortunate era rimasta in sospeso fino ad agosto, quando ho visto sul profilo di Ola una foto scattata nella mia regione, durante una sua residenza a Topolò per Robida. L’ho quindi ricontattata e ci siamo incontrate per la chiacchierata che state per leggere. E colgo l’occasione per ringraziare di cuore lo staff di Robida per l’intercessione e per aver reso possibile l’intervista di persona.


Il tuo Six-Fuck mi è piaciuto moltissimo, la frase che menzionava “l’impiego di parole e gesti forti” che mi ha molto colpita. C’è un articolo molto bello di Alessandro Ajres che tratta il linguaggio di Strajk Kobiet in cui viene intervistato Michał Rusinek, che analizza l’utilizzo del turpiloquio nelle proteste. È stato un po’ straniante, perché qui in Italia durante le manifestazioni parolacce e sproloqui sono la norma. In Polonia è un fenomeno recente?

 

Ola: Quando nel 2016 scoppiò la Czarny Protest mi trovavo in Olanda. Non essendo in Polonia non avevo modo di protestare in strada, ma da quanto mi ricordo non c’era un uso così aperto e diretto di termini così forti. C’erano espressioni di dissenso come “Jebać PiS” (fanculo il PiS), certo, ma con Strajk Kobiet è stato come se qualcosa si fosse sbloccato: le persone urlavano apertamente “Jebać PiS” e ci hanno anche fatto una canzone. Per cui in questo senso sì, direi che è stato qualcosa di nuovo, che cresceva e cresceva e all’improvviso è esploso e le persone hanno iniziato a utilizzarlo in strada. Se una forma particolare di protesta inizia in una città e viene trasmessa in televisione o condivisa su internet inizia semplicemente a diffondersi. E per quanto riguarda i meme, anche gli otto asterischi erano molto belli, cinque sopra e tre sotto (uno per ogni lettera di jebać PiS), e si vedevano ovunque. Le persone li incollavano persino alle finestre,  sono davvero entrati nella coscienza collettiva. Fai conto, l’altro giorno ho postato una foto stupida con delle carote, e poi una mia amica me l’ha rimandata con una carota in più, così che fossero cinque sopra e tre sotto.

 

Da quello che abbiamo visto qui c’è stato un impiego particolare di simboli ed elementi visivi che non ho mai visto nelle proteste qui in Italia, dove non c’è questa enfasi sull’estetica. Però poi ci sono tutti gli appendini, gli ombrelli e il fulmine, che diventano virali proprio perché sono così facili da replicare.

 

Ola: È vero, proprio perché sono molto semplici e le possono disegnare tutti. La semplicità di queste immagini è la loro forza, ma se anche ho visto gli appendini un po’ in tutti i Paesi, gli ombrelli sono comparsi nel 2016 perché stava piovendo. È solo allora che sono diventati un simbolo.

 


Avevo letto che era per le suffragette che bussavano alle porte con gli ombrelli mentre protestavano contro Piłsudski.

 

Ola: Potrebbe essere, ma mi ricordo le foto di Varsavia dall’alto durante le proteste, e in quei giorni stava diluviando, quindi non si riuscivano a distinguere né la folla né le persone, ma si vedevano gli ombrelli, molti dei quali neri. Forse c’è un collegamento, ma penso che il motivo sia prettamente funzionale, perché mi ricordo che pioveva a dirotto. È interessante come gli oggetti della vita quotidiana possono diventare un’arma o un simbolo di protesta. 

 

Un’altra cosa che mi ha colpita è stato il fatto che sia quasi diventata una sorta di performance collettiva, con un grado di partecipazione mai visto prima. Come ti collochi, come artista, nel vedere questi elementi visuali che nel corso delle proteste venivano replicati e migliorati?

 

Ola: È stato qualcosa di completamente nuovo anche per me, perché certo, anch’io avevo preso parte alle proteste contro la violazione costituzionale, ma mai su così larga scala. Come ho già detto prima, nel 2016 mi trovavo in Olanda, e lì abbiamo organizzato soltanto delle iniziative più piccole, come una raccolta firme. Ero molto invidiosa dei miei amici che potevano scendere in strada, perché un evento del genere ti dà così tanto coraggio, così tanta speranza, ed è una sensazione completamente diversa, un’energia diversa, mi è dispiaciuto tanto non poter esserci. Una volta che sei in mezzo alla folla ti senti davvero spronata a fare cose e lottare, ma penso anche che le proteste dello scorso anno, del 2020, abbiano una formula diversa dalle precedenti. C’era molta rabbia, ma nonostante la rabbia erano davvero gioiose. C’era ironia, c’erano battute, lacrime di felicità e tanta musica – che credo fosse iniziata perché le prime proteste stavano bloccando le strade alle cinque di pomeriggio, con le persone che attraversavano le strisce pedonali. Così, con le persone che portavano la musica, sono diventate quasi una festa. Nella mia città, Poznań, c’erano un paio di barricate con la techno, e poi si sono accodati i DJ. C’è stata davvero una festa, non ci sono andata ma alcuni miei amici sì, e per loro era troppo, quasi come se la protesta perdesse di senso e diventasse qualcosa di kitsch per i ragazzini. Sono in molti a pensarla così, ma non mi trovo d’accordo, perché credo che ciascuno stesse cercando il proprio modo di protestare contro la situazione, e se l’atmosfera è questa (perché erano giovani, saranno stati liceali o ancora più giovani) a me va benissimo, perché credo che ogni forma di protesta sia giusta a modo suo.

 

È diverso anche dal tuo approccio alla protesta. Leggendo della tua performance Gentle Protest, in cui la scelta di pulire spazi pubblici con una valenza simbolica diventa un gesto di resistenza contro le norme patriarcali, i metodi sembrano quasi agli antipodi. Ti posso chiedere quale fosse l’aggettivo polacco, miły?

 

Ola: Direi più delikatny, ma siccome l’ho preparata in inglese non ci ho pensato troppo.

 

Scusami, è che lavorando sull’opera di Olga Tokarczuk mi chiedevo se czuły, come il narratore del suo discorso di accettazione del Nobel, potesse essere una traduzione appropriata visto il riferimento.

 

Ola: Sì, sarebbe qualcosa a metà tra czuły e delikatny. Ma devo dire che non è che io sia in disaccordo con altri metodi, pur avendo un approccio mio. Qui è stato diverso perché non ero parte di un gruppo, di una folla, che ti dà così tanta forza che ti fa quasi sparire. Lì il senso di responsabilità viene quasi meno, perché sei parte della massa, mentre protestare o combattere da soli è molto più difficile perché diventi immediatamente visibile, e la cosa richiede un enorme coraggio. È per questo che ho scelto di farlo per vie traverse, pulendo, rendendo il tutto gentile e delicato e per mezzo di un’attività quotidiana come il pulire, trasportandola dalla dimensione privata della casa a quella pubblica dello spazio urbano. Ed è stato molto ironico, perché quando ho iniziato a farlo in città le persone mi ignoravano, o se anche si fermavano nessuno mi rivolgeva la parola. È un’azione a cui la gente non dà importanza, ed è successa una cosa molto buffa. Stavo pulendo un monumento, con me c’era la mia amica, un po’ nascosta, a riprendermi con la videocamera, e a un certo punto è arrivata la polizia. Di solito se interagisci con i monumenti, se tocchi le statue, qualcuno ti può dire “non toccare”, come se ci fosse un’aura di sacralità intorno agli oggetti pubblici, ma io stavo semplicemente pulendo, così hanno accostato, mi hanno squadrata per un po’, si sono scambiati qualche parola e si sono allontanati. E ho pensato che fosse molto ironico, che il modo con cui interagisci con gli oggetti può costituire una violazione della legge -ad esempio se fosse stato un pennarello, o uno skateboard – ma siccome era un panno per pulire non lo era più.

 

 

A proposito di spazi pubblici, luoghi con una certa importanza simbolica per la mentalità polacca… È interessante che tra gli spazi da te scelti ci fosse anche il portone di una chiesa, qualcosa che, nonostante il sostrato cattolico, nella coscienza collettiva italiana ha una connotazione un po’ diversa. È stata quasi una rivisitazione del lavoro di cura femminile, ma sono rimasta un po’ stranita dal fatto che la reazione dei passanti sembrasse riflettere che quanto stavi facendo era quello che ci si aspettava da una donna, nel senso, stai pulendo quindi non è una protesta, è il tuo compito, mentre se scendi in strada urlando con appendiabiti e musica allora lo è. Penso dica molto di quanto la società, specialmente quella polacca, consideri “accettabile” o “vera protesta” – anche e specialmente se sei una donna.

 

Ola: Certamente. Essere violente, urlare improperi o, che ne so, scoprire il seno (perché è successo anche questo) è inaccettabile da un punto di vista patriarcale, ma proprio per questo è scioccante ed è una novità. L’idea originale per la performance era appunto quella di servirmi dell’atto del pulire come cliché del lavoro femminile, ma poi ho iniziato a dedicarmi all’arte tessile, e lì ho notato che mi serviva qualcosa di più per renderlo più valido e più d’impatto, così ho deciso di andare in Polonia e girare quel video per dare forza all’oggetto in sé. Così nessuno penserebbe che sia questa la protesta, voglio dire, se qualcuno mi vedesse pulire le strade non penserebbe che io stia protestando, anche se alcune persone pensavano stessi manifestando per qualcosa, ma le persone vedevano il lavoro in sé, e il collegamento tra le due non è spontaneo. Ma se invece vedi il mio lavoro e poi il video, è lì che capisci quando è diventato un elemento così importante per il progetto. Però sì, sono d’accordo. Adesso il Ministro dell’istruzione ha detto che vorrebbe far sì che a scuola si lavorasse sulle cnoty niewieście (“virtù femminili”) – non so nemmeno da dove l’abbia tirato fuori -, ed è il Ministro dell’istruzione a sostenere cose retrograde come il voler insegnare alle donne come comportarsi e come essere donne, perciò in questo senso le proteste si configuravano davvero come una risposta a questa visione delle donne che non possono avere le loro opinioni né farsi sentire.

 

Avevo letto in un libro sulle Comunarde che la nostra società ha un problema con la violenza femminile: è qualcosa a cui non siamo abituati, che non abbiamo ancora imparato a metabolizzare o rappresentare. E al tempo stesso sembriamo dimenticarci che la violenza è una possibilità diversa dalla forza, e che a volte c’è bisogno di violenza senza forza. È un concetto preso da Hannah Arendt, che diceva che questo tipo di violenza è necessario per ottenere il potere, che non deve essere potere sulle persone ma per le persone. Non c’è giustizia senza tutela della comunità, e la violenza è necessaria proprio perché c’è bisogno di un forte senso etico senza usare la forza sul prossimo, e penso sia una bella riflessione sull’argomento, perché unisce il tuo approccio e quello di Strajk Kobiet.

 

Ola: Le proteste in Polonia però non erano violente, al massimo erano un po’ edgy. Ma capisco cosa intendi nel dire che non si stava usando la forza, e che con violenza non si intende fare del male al prossimo o distruggere oggetti e luoghi. Forse ci sono state alcune azioni un po’ difficili da collocare, come i graffiti sui muri delle chiese, perciò magari era quella la violenza che ha oltrepassato il limite della protesta nonviolenta convenzionale, ma secondo me è un’opzione assolutamente giustificata. Durante le proteste per Black Lives Matter mi trovavo tra Olanda, Belgio e Regno Unito, quando hanno buttato giù e gettato in acqua tutte le statue di figure storiche legate al passato coloniale. Penso che distruggere un certo tipo di architettura sia una dichiarazione molto forte.

 

Qui in Italia il dibattito sulle statue, sul fascismo e sul passato coloniale si è concentrato sul caso della statua di Indro Montanelli a Milano. Al di là dei numerosi dibattiti sulle statue e sui simboli che rappresentano, è stata spesso vandalizzata: una volta delle attiviste ci hanno gettato sopra della vernice rosa, ed è rimasta così per un po’. Penso che così facendo si possa avere entrambi, la statua e il simbolo, e con la sovrapposizione dei due elementi anche il messaggio dell’opera cambia.

 

Ola: Sì, ma si tratta anche di quello che le statue rappresentano. A un certo punto devono anche buttarle giù, le tengono perché fanno parte della storia, ma magari no, per quale ragione ci ostiniamo a tenerle in piedi? A Londra hanno coperto una statua di Churchill con una scatola, e trovo che questo gesto così pragmatico abbia una valenza simbolica molto forte. Come hai detto tu, possiamo avere entrambe.

 

Una mia amica storica dell’arte, Yasmin Riyahi, si è occupata spesso della questione di statue e architettura facendo notare come queste siano l’incarnazione dei valori di uno Stato nei luoghi pubblici, e come le statue si trovino collocate nello spazio urbano come esempio di virtù o condotta. Eppure, durante questi momenti di protesta, ci si trova di fronte alla propria identità di nazione e ci si chiede se sia davvero questo l’esempio che vogliamo dare e seguire. Penso che Strajk Kobiet abbia fatto un lavoro eccellente in questo senso, il mio momento preferito è stata la sostituzione del cartello della Rondo Dmowskiego con “Rondo Praw Kobiet” (“Rotonda Diritti delle donne”).

(L’intervista si è svolta in agosto, ma in questi giorni si sta dibattendo sul cambiare il toponimo)

 

Ola: Sì, ci sono stati molti episodi simili! Nella mia città non era così visibile, ma a Varsavia hanno decorato la Sirena. Ed è proprio come dici tu: se le statue devono fungere da specchio o esempio per la società allora la cosa non può funzionare solo da un lato. E anche il modo in cui le persone si interfacciano con la città, come la cambiano, le statue, l’architettura, perfino i graffiti sulle chiese riflettono il momento storico che stiamo vivendo. Io non riuscirei a farlo, non ho abbastanza coraggio per scrivere sui muri, ed è anche per questo che ho sviluppato un approccio più delicato e concettuale alla protesta. Forse alcuni lo definirebbero inconsistente, perché non si schiera in prima linea, ma ritengo che trovare il proprio linguaggio di protesta sia altrettanto importante. Se non ti senti a tuo agio a urlare, non farlo, ci sono migliaia di modi per esprimere il proprio dissenso. Per quanto riguarda l’architettura, nel video di Gentle Protest ho pulito anche dei monumenti ai caduti. Quelle inquadrature mi sono piaciute molto, perché le linee erano nette, appuntite, e l’immagine di una ragazza che le pulisce in modo così delicato è davvero forte, e bella. Ed è stato nel momento della ricerca dei luoghi con cui interagire che ho capito quanto i toponimi e lo spazio pubblico siano dominati da uomini.

 

 

I monumenti erano puliti? Hai notato una cura nei confronti dello spazio pubblico, o c’era invece un’indifferenza di fondo nei confronti della memoria collettiva?

 

Ola: Erano puliti, sì, tranne una scultura in un parco. Era fatta di pietra, quindi un materiale ruvido e poroso, ed essendo in un parco c’era anche del muschio che ci cresceva sopra. Ma per il resto sì, c’era una cura.

 

Un’altra peculiarità di Strajk Kobiet era il literaturocentryzm, la preponderanza di elementi letterari ben presenti nella memoria collettiva che vengono rielaborati e rivisitati. Penso alla performance dei Dziady sulla Mickiewicza del 31 ottobre. Seguo anche la pagina dell’APP, l’Archivio delle Proteste Pubbliche, e per il Pride Month di quest’anno ho visto persone vestite da Stańczyk. È una cosa che non succede in Italia o in altri Paesi, non protestiamo vestiti da Dante, e invece in Polonia c’è un dialogo continuo con la vostra storia, la vostra identità, la vostra letteratura e quello che significa per voi, ed è bellissimo. Anche soltanto Dziady, sia per il periodo in cui è stato scritto sia per i tumulti successivi, come il caso del ’68…

 

Ola: È qualcosa di simile a quanto accade con le statue, perché ha una valenza simbolica così radicata che anche quando ne rovesci il significato assume una connotazione altrettanto forte. Tutti sono in grado di capirne anche la sovversione proprio perché fa parte dei tuoi riferimenti già da quando sei bambino, per cui il gioco di citazioni si capisce subito. Non ricordo di averne visti a Poznań, ma c’era un cartello bellissimo con su scritto “Annuszka już rozlała olej”.

 

C’è anche la versione aggiornata in cui l’olio è finito. Ce n’erano anche molti che riprendevano i graffiti del bibliotecario di Łódź.

 

Ola: Vero! Credo che Internet aiuti molto in questo frangente, perché se c’è qualcosa di interessante si replica subito, cresce, viene imitato e memato. Così qualcuno inizia con Annuszka, qualcun altro continua e poi la cosa va avanti.

 

È proprio una delle caratteristiche più affascinanti e folli delle proteste, soprattutto se le segui in tempo reale. Ho iniziato a seguire la politica polacca e le proteste con lo Stonewall polacco, e c’è questo gioco continuo di riferimenti alle proteste passate, all’architettura, alla letteratura, e proprio per questo vorrei chiederti di nuovo se per te possa essere quasi una performance collettiva sull’identità, un atto collettivo di ribellione contro dei simboli da risignificare.

 

Ola: Penso di sì, nel senso che c’è davvero questa modalità artistica di protesta che rende le persone così creative. Vedere tutti questi cartelli, queste trovate e slogan pazzeschi, è stato incredibile, perché normalmente non ci si accorge di quanto la società possa essere intelligente e creativa. Ora che hai menzionato Stańczyk, mi viene in mente di una cosa molto bella successa a Poznań: anche lì avevano bloccato le strade, e il giorno dopo sui giornali c’era il titolo “Le donne bloccano Poznań. Il centro è inagibile. L’autista del tram applaude, i gay ballano la polonaise”. La polonaise è una danza molto importante per la nostra cultura, ed è presente anche nell’ultima scena del Pan Tadeusz, uno dei libri più importanti di tutta la letteratura polacca. Siamo alla fine del libro, Tadeusz e Zosia si sposano e ballano la polonaise, e nel film di Wajda questa scena è davvero toccante – vanno tutti in campagna, un posto da sempre associato al sarmatismo, molto importante nella storia della coscienza polacca. Così, ballando la polonaise, anche la comunità LGBT entra a far parte di questa tradizione. Se non sbaglio la polonaise c’è anche nell’ultima scena di Trans-Atlantico di Gombrowicz, dove l’autore si appropria di questa tradizione e la deride. Va da sé che il passo successivo fosse proprio vedere le persone ballarla con le bandiere arcobaleno, è stato molto intelligente usare non soltanto dei simboli culturali ma anche la loro iterazione in letteratura e cinema. Penso che in tempi di crisi si manifesti una collettività che nella vita di tutti i giorni non si vede. Ora mi trovo a Topolò ed è bellissimo, qui non conosco nessuno ma dico “ciao” e le persone sorridono e mi salutano, c’è questo senso di vicinanza e comunità solo con un semplice gesto. Quando vivi in una città grande non ti senti spesso parte di un gruppo, ma partecipare a eventi del genere ti fa sentire che sì, le persone possono essere e sono unite, anche e soprattutto in una cultura specifica come la nostra.

 

 

Ti sei mai sentita isolata in Polonia? Nel senso, pensi che questo senso di comunità manchi nella vita di tutti i giorni?

 

Ola: È un po’ come vivere in una bolla, perché ho trascorso praticamente tutta la mia vita in città grandi e ho anche vissuto all’estero, quindi ho un certo punto di vista sulle cose. E poi le persone che mi sono vicine hanno i miei stessi valori e le mie stesse idee politiche, ma quando guardi il telegiornale ti accorgi che metà della nazione ha idee completamente opposte e non ho mai avuto modo di averci a che fare di persona, è quasi come se non esistessero. Quindi io sono nella mia bolla, in Polonia nelle città grandi c’è una concentrazione maggiore di persone di sinistra, mentre la campagna ha un modo totalmente diverso di vedere la società e i ruoli di genere. Perciò sì, è una sensazione un po’ strana, ma non è che io mi senta isolata o disconnessa, anche se in una città grande non ti senti quasi mai parte di una comunità. Per cui durante le proteste è stato molto bello sentire che sì, siamo insieme, siamo uniti e riusciremo a cambiare la situazione.

 

Con la tua partecipazione alle proteste e al dibattito sui ruoli di genere, hai notato dei cambiamenti nel modo in cui hai visto il tuo lavoro e il tuo essere donna? Specialmente perché nelle tue opere ti servi di molti elementi tradizionalmente femminili.

 

Ola: Sì, perché ti infondono un sacco di coraggio, come ho scritto anche in Six-Fuck. Sono cresciuta in un ambiente progressista ma resto una persona mite, non ho un temperamento irruente o aggressivo, sono estremamente tranquilla da questo punto di vista. Ma le proteste ti danno questa forza di capire che puoi essere anche altro, che puoi farti avanti e dire ciò che pensi: ti danno uno spazio per farlo e per non avere paura.