Le Marlboro di Sarajevo: guerra, vita e morte nel microcosmo della Gerusalemme d’Europa

Conciso, realista – di quel realismo crudo balcanico – e illuminante, Miljenko Jergović è senza dubbio un pilastro della letteratura della jugosfera. Sarajevese, ma trapiantato da anni a Zagabria: lui stesso in un’intervista dichiara di essere un sarajlija, termine bosniaco che sta ad indicare il cittadino della Gerusalemme d’Europa. Sarajevo è, quindi, la patria dell’anima di Jergović: lì sono ambientati molti suoi romanzi e racconti, primo fra tutti Le Marlboro di Sarajevo, pubblicato dalla casa editrice Bottega Errante nel 2019 e tradotto da Ljiljana Avirović. Questa raccolta di racconti ha consacrato Jergović a livello internazionale, con un successo che, cresciuto nel corso degli anni, lo ha portato ad essere uno degli scrittori balcanici più apprezzati.

29 racconti: 29 Marlboro, 29 sevdalinke, 29 piccoli viaggi in un’unica città: Sarajevo. Una polifonia di voci, delle memorie da un sottosuolo di vivi e di morti, in dialogo tra loro. Da ogni storia si percepiscono una serie di caratteristiche e sentimenti che sono ricorrenti nell’opera omnia di Jergović: la tranquilla accettazione dell’ineluttabilità della vita e l’humour bosniaco che si insinua nei momenti più terribili della vita di un essere umano. Un affresco di Sarajevo e del suo piccolo mondo che solo Jergović sa rendere, creando un universo a sé, dove le coordinate di spazio, di tempo e di razionalità sono completamente capovolte. A Sarajevo:

La guerra, grande protagonista di questi insoliti racconti, non si vede; essa non è in primo piano, bensì costituisce la cornice, lo sfondo onnicomprensivo.

 

 

Per un sarajevese la guerra era, ormai e purtroppo, parte della quotidianità. Quella quotidianità che si spezzò completamente a partire dal 5 aprile 1992, giorno dell’inizio dell’assedio più lungo della storia moderna. Il sarajevese, però, cercava comunque di continuare la sua travagliata esistenza: di vivere, di amare, di coltivare speranza nelle piccole cose. Come in Il cactus, secondo racconto della raccolta, dove in una piccola pianta inanimata l’io narrante trova la propria occupazione, l’unica azione in grado di spezzare la monotonia di quei giorni. Lo vede crescere, nonostante fuori dilaghi la morte, lo vede avvicinarsi alla finestra in corrispondenza del mirino dei četnici, nonostante le persone evitino scrupolosamente le finestre della propria abitazione, e lo vede morire, nonostante tutti i suoi sforzi nel cercare di accudirlo:

Lo innaffiavo regolarmente ogni cinque giorni e stavo attento a non spostarlo. […] Avevo cura di quel cactus, e mi facevo meraviglie di me stesso per come non peccassi mai nei suoi confronti.

La potenza dei racconti di Jergović sta nel loro essere brevi, incisivi e, in un certo qual senso, moralistici. Quest’ultimo è certamente lascito di uno dei massimi scrittori bosniaco-erzegovesi: Ivo Andrić. Come il premio Nobel nel 1961 per Il ponte sulla Drina – consegnatogli “per la forza epica con la quale ha tracciato temi e descritto destini umani tratti dalla storia del proprio Paese” – anche Jergović termina spesso i suoi racconti con una sorta di parabola. Di nuovo ne Il cactus:

Ma in fondo la cosa non è così importante, se non come avvertenza che nella vita bisogna diffidare dei dettagli. Di quelli solo. E di nient’altro.

Sarajevo, come Višegrad – la città di confine dov’è ambientato Il ponte sulla Drina di Ivo Andrić – è il cuore pulsante della narrazione, lente d’ingrandimento sulla Bosnia di quel determinato periodo storico, ma allo stesso tempo simbolo universale della vita umana. Questo aspetto fondamentale fa di Jergović uno scrittore epico – come lo ha legittimamente definito Claudio Magris nella prefazione de Le Marlboro– di quell’epica che è lascito diretto dell’epica andrićiana. Ad essa assomiglia per temi, ritmo e significato, in un flusso nel quale cambia tempo, luogo e personaggi, ma non perde mai quella sua essenza di narrazione tipicamente bosniaco-erzegovese.

 

L’esistenzialismo, altra componente dell’opera di Jergović e colonna portante della letteratura balcanica, porta sempre lo scrittore e, di riflesso, il lettore a riflettere sulla vita, su ciò che vi è di importante in essa e per cosa vale – o non vale – la pena di vivere. Fa eco una celeberrima frase, forse la più conosciuta, di Ivo Andrić, sempre da Il ponte sulla Drina: E così, tra il cielo il fiume e le montagne, una generazione dopo l’altra imparava a non compiangere troppo ciò che la torbida acqua si portava via; ché la vita è un miracolo impenetrabile perché si fa e disfà incessantemente, eppure dura e sta salda, come il Ponte sulla Drina.

Così è la vita, dice l’anima bosniaca, scrivono i suoi celebri scrittori: segui il suo flusso, cerca di non farti travolgere dagli eventi e, ogni tanto, cerca di prenderla in giro. A volte, è invece lei a prenderti in giro, si manifesta in tutta la sua voluttà in un albero di mele perfetto – che il protagonista possiede in giardino – e tiene in pugno la vita della vicina di casa, con la quale non parla da anni. È il marito di Jela, la vicina, a condensare in poche parole lo sgomento di fronte a tanta ingiustizia: Noi, figlio mio, siamo vivi quanto basta per guardarci negli occhi e capire che è finita. Tutto qui. Guarda, ecco, queste mele… C’è così tanta vita in loro. Tutto questo non le tocca. Non sanno. Non ho più neanche il coraggio di nominarle.

Così, nel mezzo di una guerra durante la quale si poteva avere paura del proprio vicino, il filo sottile della vita spezza un legame di odio reciproco e si ricompone, irrobustendosi e diventando un forte ricordo di komšiluk. Per komšiluk, dal turco komşu cioè vicino di casa, si intende un rapporto di vicinato che comprende il mutuo soccorso e il totale e disinteressato senso di comunità tra cristiani, musulmani ed ebrei. Inoltre il komshi era un quartiere nel quale, come in un patio, una porta dava sulla strada e l’altra si affaciava direttamente sul komshi. Oltre al mutuo soccorso, il profondo rispetto reciproco, l’aiuto nei lavori domestici e la partecipazione a tutti gli eventi delle rispettive famiglie erano altri comandamenti di questo rapporto sacro. I componenti del komšiluk vengono denominati komšije. Se il komšiluk era, soprattutto nei decenni di comunismo jugoslavo, qualcosa di estremamente sacro ed estremo vanto della convivenza tra nacionalnosti, da un momento all’altro tutto questo crolla. Da un giorno all’altro il tuo vicino di casa diventa il tuo peggior nemico, perché è così “vicino” che può decidere se sgozzarti subito o darti in pasto alla frangia nazionalista di cui ha cominciato, da poco, a fare parte:

La Verità, se scriverete mai una qualche Storia, non credo proprio che la menzionerete. Neanche come nota a piè di pagina. La Verità suonerà offensiva, se mai qualcuno vorrà dirla, per i serbi, per i croati e per i musulmani. I primi hanno istigato e messo in atto il crimine, gli altri, nella loro disgrazia, hanno creduto di essere nel giusto e di dover pensare e agire come i primi. Ciò che accadrà in futuro sarà solo un riflesso di questa catarsi del Male e non avrà alcun nesso quello che la Bosnia e Sarajevo erano un tempo.

Nel terzultimo racconto della raccolta, La lettera, Jergović lascia allo scrittore pagine di estrema lucidità e verità che riassumono magistralmente ciò che, in breve, la guerra è stata e ciò che, come una profezia, effettivamente sarà. Al lettore, quindi, non viene offerto nessun tipo di consolazione, né tantomeno una spiegazione edulcorata dei fatti: Le Marlboro di Sarajevo sono un insieme di racconti di finzione, ma il lettore non deve dimenticare che tutto ciò è accaduto realmente. Jergović non si preoccupa mai di ingannare il lettore o di privarlo delle note più dolorose e inquietanti di quello che fu un vero e proprio inferno su suolo europeo trent’anni fa. È andata veramente così: la reazione a catena serbo-croati-musulmani è ciò che è stato realmente. La profezia, inoltre, si è inquietantemente avverata: la situazione odierna dei paesi ex-jugoslavi altro non è che un continuo rigetto della guerra, anzi questa sembra non essere mai finita. La pace è solo apparente, una mera illusione scritta su fogli di carta. Quei fogli burocratici scritti non per mano dei bosniaci, ma di chi controlla da un Paese lontano e straniero che una pace apparente regni su quel triangolo dimenticato d’Europa.

Le Marlboro di Sarajevo condensa perfettamente tutta la narrazione sulla guerra, l’ultima serie di conflitti che hanno portato alla dissoluzione della Jugoslavia. La grandezza di Jergović sta proprio nel mettere nero su bianco i sentimenti più veri, sinceri e spontanei di chi quelle guerra l’ha vissuta sulla propria pelle. C’è tanto dolore, ma c’è il black humour bosniaco che si fa beffa del dolore, lo ridimensiona per restituirne la dignità, sia ad esso che a chi lo patisce. Il bosniaco si auto-ironizza, si prende gioco di sé, ma non per vanto: è un’abitudine analoga al fine umorismo yiddish. Chi ha patito secoli di dominazione, di sopraffazione e di tumulti interni non può fare altro che prendersi gioco della vita e di sé stesso. Jergović in questo riesce benissimo: i suoi personaggi sono verosimili e restituiscono lo stesso tipo di atmosfera che si creerebbe dialogando con un gruppo di persone di quelle terre. Una polifonia vivida che non lascia spazio a voli pindarici e a castelli di carta. C’è tutta la dignità di un popolo che, pur avendo aiuti umanitari esterni, non ne aveva bisogno perché sapeva benissimo sopravvivere da solo. C’è tutta la dignità di chi per 1395 giorni d’assedio andava a prendere le taniche di acqua a piedi, uscendo di casa a testa alta e guardando dritto negli occhi gli snajper. C’è tutta la dignità di un popolo che fa i ancora i conti con le ferite della guerra, ci convive come si convive con un ospite indesiderato al quale, comunque, si offre un bicchierino di rakija. I bosniaci possono solo che ringraziare Jergović – così come noi lettori non possiamo ringraziare sia loro, fonti d’ispirazione di tante opere di qualità, sia uno scrittore di tale levatura quale Miljenko Jergović.

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