I sognatori di Lubiana: l’importanza di chiudere i cerchi della vita

Sullo sfondo della Lubiana a cavallo tra il finire degli anni Ottanta e l’inizio dei turbolenti anni Novanta si svolge la trama de I sognatori di Lubiana (in lingua originale Konec. Znova.) di Dino Bauk, pubblicato per la prima volta in Slovenia nel 2015 ed edito in Italia nel 2021 da Bottega Errante. Romanzo d’esordio dell’avvocato ed editorialista lubianese, I sognatori di Lubiana ruota attorno alla figura di Denis, figlio di un ufficiale dell’Armata Popolare Jugoslava, dei suoi migliori amici Peter e Goran, coi quali è cresciuto nello stesso quartiere, che dall’autore viene chiamato “il Villaggio”, e della ragazza americana Mary, mormona, che si trova a Lubiana in missione per conto della propria Chiesa e della quale Denis si innamora. Le vicende del gruppo di amici, amanti del rock e del punk, e dei due innamorati Denis e Mary s’interrompono bruscamente quando Denis, nato da una famiglia non slovena e che dopo la disgregazione della Jugoslavia ha dovuto abbandonare Lubiana, viene arrestato e costretto ad andar via dalla Slovenia, divenendo in seguito un soldato di una delle “tribù” in guerra – così vengono chiamati gli schieramenti serbo, croato e bosniaco durante la narrazione.

 

«Koliko imaš godina? / I plamena u očima? / Koliko tužnih ljubavi/ ostavljaš sada ti?/
Od usana do usana/ i svuda tebe tražim ja, / od mojih tužnih ljubavi/ ostaješ samo ti»

«Quanti anni hai? / E quanto fuoco c’è nei tuoi occhi? / Quanti tristi amori/ lasci [dietro di te] adesso tu? /
Di labbra in labbra/ e ovunque io ti cerco, / dei miei tristi amori/ resti soltanto tu
»

(U Škripcu – “Koliko imaš godina?”, Jugoton, 1983)

 

Lubiana negli anni ’80

Dando voce ad ogni personaggio e dedicando ad ognuno di essi i capitoli che compongono il romanzo, Bauk ci introduce ai pensieri, ai ricordi, ai rimpianti, alle difficoltà e alle frustrazioni non solo di un gruppo di ragazzi come tanti altri, ma di una generazione, di un’epoca. Numerosi sono, infatti, i riferimenti alla crisi del Kosovo – dove sul finire degli anni Ottanta era sempre più dilagante la violenza interetnica -, allo scandalo della rivista Mladina, in cui alcuni giornalisti, tra cui il futuro primo ministro sloveno Janez Janša, furono colpevoli di aver reso pubblici segreti militari; ma anche alle guerre jugoslave, alla transizione dal socialismo al capitalismo, dove quelli che un tempo erano uomini potenti dell’establishment socialista si sono riciclati con abilità nel nuovo sistema. Non per ultima, oltretutto, la questione degli “izbrisani”, dei “cancellati”, ovvero di coloro che risiedevano in Slovenia al momento della sua indipendenza nel 1991 senza però averne la cittadinanza e che finirono per rimanere senza uno status giuridico. In molti, come il giovane Denis, furono costretti a lasciare il paese.

Centrale, in questo romanzo, è l’uso dei riferimenti musicali – che è quasi obbligatorio includere in un romanzo che tratta tematiche in qualche modo legate alla cultura giovanile jugoslava di quegli anni. Nella Jugoslavia socialista, infatti, a partire soprattutto dagli anni Settanta, complice la relativa libertà concessa ai cittadini (gli jugoslavi potevano, al contrario di coloro che si trovavano ad est della Cortina di ferro, viaggiare liberamente, ascoltare musica e vedere film provenienti da occidente), passando per la Slovenia entrò nel paese il punk, che successivamente, mischiandosi ai già presenti nel paese rock e pop, risultò nel fenomeno ancora oggi noto e apprezzato del Novi val (lett. “nuova onda”, “new wave”). Il Novi val fu non solo un modo di far musica – caratterizzato oltretutto da stile e sonorità unici ad esso -, ma anche una filosofia di vita, un modo per i giovani jugoslavi di esprimere il proprio desiderio di divertimento, di libertà, di ribellione. La fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta jugoslavi furono prepotentemente influenzati da questo revival culturale del quale la gioventù fu l’assoluta protagonista e che rese la Jugoslavia un paese culturalmente unico nel contesto dei totalitarismi socialisti. Lubiana, Zagabria, Belgrado e più tardi, in parte, Sarajevo, tutto il paese, per citare una famosa canzone del gruppo belgradese Električni Orgazam, ballava il rock’n’roll. Il Novi val, con l’inizio della crisi economica successiva alla morte di Tito e col passaggio di molte band ad una musica più commerciale, iniziò lentamente a morire, ma non prima di aver acceso la miccia della critica sociale e politica – e qui gli sloveni ebbero un ruolo centrale.

Da sempre quasi un’outsider nel contesto jugoslavo, la Slovenia fu, specialmente a partire dagli anni Ottanta, uno dei centri del dissenso verso il regime e la scena musicale della repubblica alpina ne fu una delle voci più potenti. Gruppi come i Laibach, Otroci Socializma, Borghesia, ma anche come i Pankrti, nati nel 1976 e primo gruppo punk nato in un paese socialista, presero con forza a criticare un regime, un sistema che ora si stava rivelando debole, contraddittorio, incapace di affrontare i propri problemi. A questi si unirono gruppi di altre repubbliche come gli zagabresi Azra e, soprattutto, i belgradesi EKV – quest’ultimo probabilmente il gruppo ex-jugoslavo più apprezzato -, entrambi citati nel libro, e tutti insieme furono la voce non solo del dissenso, ma anche della delusione e del desiderio di fuga da quegli anni Ottanta pieni di crisi e incertezze per gli jugoslavi, sentimenti che esprimono i pensieri di quei Denis, Mary, Peter e Goran che, come afferma Denis in una lettera aperta ai suoi amici alla fine del libro, pur pensando di poter sopravvivere agli eventi grazie al rock’n’roll, non sono riusciti a fermare gli eventi, non sono riusciti a non farsi trasportare da una delle fazioni coinvolte nel disfacimento della Jugoslavia.

 

Gli Ekatarina Velika

 

Fondamentale per la narrazione è il concetto di “cerchio”, quel cerchio che si è aperto nelle vite del gruppo di amici e che, con la partenza di Denis dalla Slovenia, non si è più chiuso. Ed è la canzone intitolata “Krug” (“Il cerchio”, appunto), dei già citati EKV, che stava suonando il gruppo di amici con rabbia e tensione per divergenze tipiche dell’adolescenza, divergenze che non si sono mai più placate, col gruppo che si è diviso e ogni suo membro ha preso la propria strada, senza riuscire però a tirare avanti dopo la rottura – Denis e Mary lacerati dal ricordo del loro amore e dal desiderio di ritrovarsi, Peter e Goran incapaci di continuare a vivere in maniera sana.

 

«Ovaj krug sam smislio, / ovaj krug sam stvorio, / ovaj krug sam razbio, / u vetar rasuo»

«Questo cerchio ho inventato, / questo cerchio ho creato, / questo cerchio ho distrutto/ (e) l’ho sparso al vento»

(EKV – “Krug”, PGB RTB, 1989)

 

Il resto della narrazione vede i protagonisti affrontare il passato ricordando, cercando di mettere insieme i pezzi, aprendo le proprie coscienze ai vecchi amici, rivolgendosi a loro direttamente – pur essendo spesso consci di non poterli realmente raggiungere con le proprie parole, ma anche a noi lettori. Il lettore, da semplice spettatore delle vicende, si può unire alla bizzarra ricomposizione dei pezzi del puzzle o, meglio, della chiusura del cerchio e sta forse proprio a colui che legge, nel finale, la scelta ultima.

Uno ad uno, in una dimensione a metà tra il mondo reale e il mondo dei sogni, i protagonisti vengono a contatto con figure che, una volta catturatili, li portano ad uscire dalla propria realtà, verso una destinazione che sia loro, i diretti interessati, che noi, i lettori, scopriamo solo alla fine. Denis, soldato sempre desideroso di leggere, qualsiasi sia il posto in cui la guerra lo porta, conosce, in una biblioteca semi-distrutta, Azra (nome che fa pensare al gruppo omonimo già citato e che dunque incarna il sentimento di delusione – in questo caso dalla guerra -, il desiderio di fuga), che lo porta verso una misteriosa luce; Mary, si lascia trasportare da una particolare bibliotecaria attraverso i meandri di una biblioteca, verso una destinazione non chiara alla protagonista; Peter, insoddisfatto e depresso, dà un passaggio ad una avvenente ragazza che lo invita a guidare lontano, verso i boschi, sarà lei a fermarlo; infine Goran, impiegato di un’azienda corrotta e occupata dai lavoratori desiderosi di ricevere le proprie paghe dopo mesi di lavoro non pagato – simbolo del difficile passaggio da socialismo a capitalismo -, che si nasconde in una valigia, attraverso la quale si apre una fessura, dove lui scompare dopo una singolare chiamata al suo amico Peter.  A noi, forse con sgomento, spetterà il compito di mettere insieme i pezzi e decidere se il cerchio verrà finalmente chiuso.

 

«Ovaj krug sam skupio/ i opet sklopio, / on me voli, / on me nosi, / on mi oprašta»

«Questo cerchio ho raccolto/ e l’ho rimesso insieme, / lui mi ama, / lui mi porta, / lui mi perdona»

(EKV – “Krug”, PGB RTB, 1989)

 

 

I sognatori di Lubiana, pur carente di spiegazioni esaustive circa la cultura musicale e la storia jugoslava – se numerosi sono i riferimenti a fatti e a gruppi, carenti sono le spiegazioni più dettagliate, che potrebbero aiutare un lettore meno esperto a comprendere meglio gli eventi narrati e le citazioni comprese nel racconto -, è un romanzo che potenzialmente ci immerge bene nelle atmosfere di una Slovenia ribelle e dissidente, distaccata ma non troppo da quei turbolenti Balcani che la sfiorano appena, pur essendo i quartieri delle sue città, come lo è “il Villaggio” (che forse è da identificarsi Fužine, Bežigrad, oppure si tratta di Moste?), dei veri e propri microcosmi in cui convivono sloveni, serbi, croati, musulmani, albanesi, macedoni, creando tante piccole Jugoslavie ferme nel tempo e che si scontrano con la civile e posata Slovenia. La Slovenia sempre pulita, sempre avanti, la piccola Svizzera che ha fatto di tutto per scrollarsi di dosso il passato jugoslavo, anche se ciò ha significato rendere virtualmente inesistenti migliaia di persone dal giorno alla notte, anche con l’ausilio di coloro che, un tempo, agli ideali di “fratellanza e unità” credevano ciecamente. E questo elemento nella narrazione di Bauk è presente ed è soggetto a forte critica, una critica straziante e impotente, come quella di Peter, che furioso prega lo zio Stane, un tempo pezzo grosso del Partito Comunista, di evitare senza successo che l’amico Denis venga portato via, o in quella dei lavoratori dell’azienda di Goran, proletari – quasi certamente serbi, bosniaci, albanesi – dimenticati da un altro ex pezzo forte dell’establishment socialista, che quasi con violenza occupano la ditta e cantano l’Internazionale.

Jugonostalgia? Probabilmente quella che trapela dall’opera di Bauk è una nostalgia non tanto indirizzata ad un paese, la Jugoslavia, che non esiste più, quanto verso dei tempi in qualche modo più leggeri, dove anche nel bel mezzo di una crisi soffocante la gente, soprattutto i giovani, riusciva a trovare il modo di sorridere, di cantare, di divertirsi, di essere libera pur non avendo, di fatto, le possibilità di coloro che vivevano ad occidente della Cortina di ferro. Ciò trapela dall’ultima lettera che Mary scrive alla propria madre: A Lubiana, ad esempio, che per te e per papà era una città oltre la Cortina di ferro, un luogo di oppressione, ho conosciuto persone a cui magari mancavano anche molte cose, ma la libertà di certo non era una di quelle.

Ma I sognatori di Lubiana ovviamente non deve essere un privilegio di coloro che conoscono il contesto jugoslavo o che lo hanno direttamente vissuto. I sognatori di Lubiana è un modo per tutti noi di assaporare le atmosfere e i sentimenti che caratterizzano la turbolenta fase della vita compresa tra l’adolescenza e il passaggio all’età adulta, di ricordare ciò che abbiamo provato, gli amori dimenticati, le amicizie interrotte senza un vero motivo, i luoghi che abbiamo amato, in modo tale da farci chiudere a nostra volta, se saremo noi a volerlo, i nostri, personali, cerchi.

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