Roland Barthes, saggista e semiologo francese, asserisce che la moda può essere letta tramite uno dei concetti cardine della teoria linguistica Saussuriana: langue e parole. L’abbigliamento sarebbe la langue, un insieme di codici dotato di una loro grammatica e sintassi, che però sono insidiati da sfumature individuali, i cosiddetti atti di parole. In altre parole, esistono delle regole stilistiche che valgono intere epoche, ma è la mente dello stilista stesso a fletterle, ed attuarle nel contesto di enunciazione.
Stilisti come Chanel e Armani tendono molto salde le loro radici minimalistiche e i loro pezzi forti, ma sono molto attenti alla ricorsività del principio di Barthes per reinventarsi ogni volta. Dall’altra parte abbiamo stilisti che riescono a modellare il sistema a loro piacimento e a giocare con i suoi limiti, spesso cancellando canoni estetici e posizionandone altri. Alcuni esempi possono essere Rei Kawakubo e Vivenne Westwood, che con le loro collezioni ed etiche borderline provocatorie non sono solo sono riuscite ad aprire porte al gender-bending nel mondo della moda, ma anche a mettere in discussione i canoni artistici del sistema moda stesso. Király Tamás, stilista ungherese di fama mondiale ed El Kazovsky, pittore russo, internato ungherese, potrebbero essere considerati di questo “tipo”. Tamás nasce il 13 settembre del 1952 e il suo operato si espande fino al 2013, dove a marzo si trovò a presentare la sua ultima linea all’Elle Fashion Show, per poi morire ad aprile in circostanze misteriose (si sospetta anche sia stato ucciso da un suo partner).
Il vero nome di El Kazovsky è Elena Kazovskaja, nata il 13 luglio, 1948 a Leningrado in Russia. Si trasferì in Ungheria all’età di 15 anni. Si ribattezzò sotto il nome di El Kazovsky (di cui nell’articolo manterremo la traslitterazione anglofona). Sin da bambina, ha combattuto con il problema di essere nato nel corpo di una donna. Questa ricerca del corpo è un topos ricorrente nelle sue opere. Il periodo storico in cui inizia a lavorare Király Tamás coincide con il periodo comunista post rivoluzione del 1956 di János Kádár. Il regime di Kádár, dal 1960 fino al crollo del socialismo nel 1989, al contrario del regime di Rákosi Mátyás pre-rivoluzione del 1956, era un regime molto più libero ed incentrato sulla libertà di mercato e sull’ampliamento diritti e libertà del cittadino. Questo giovò anche sugli artisti stessi, che diede anche il giusto slancio all’industria delle belle arti di sbancare anche su territori impensabili per il regime comunista. Király fu infatti il primo artista dell’Est Europa a partecipare al Dressater del 1988, fashion show internazionale con sede a Berlino. Lo show consisteva di una sfilata con otto designer di tutto il mondo, tra cui Vivienne Westwood. Király sorprese il pubblico con uno stile geometrico, difficile ed a tratti bizzarro. Per i vestiti della serata prese ispirazione dalle correnti del Bauhaus e dal costruttivismo sovietico, in tutto questo, le modelle dovettero camminare su una piattaforma sospesa.
Király sorprese tutti anche per via delle sue forme “non forme”. Quest’ultime erano ben diverse dalla haute couture a cui erano abituati gli stilisti dell’epoca: erano spigolose, grezze, miste ed in perfetta asincronia con la femminilità delle modelle. Il periodo storico, come si può immaginare, non dava molto spazio alle interpretazioni di genere. I ruoli di genere erano ben definiti e i lavori di entrambi gli artisti non avevano precedenti nella comunità ungherese. I due si trovarono a lavorare insieme più volte, fondendo arte e moda, ma soprattutto perché Kazovsky era un assiduo frequentatore del negozio di moda di Király: il “New Art Studio”. Il negozio fu anche il punto di ritrovo per la scena del design e moda underground ungherese.
Ma dove Király utilizzava il tempo storico e i materiali per le sue opere, El Kazovsky utilizzava un approccio più diretto ma allo stesso tempo evocativo. La sua performance art riguardava inizialmente la sua vita privata, e una delle sue più grandi opere fu il “Dzsan Panoptikum” oppure “The hall of Celebration” (1977-2001), una serie di spettacoli con un simbolismo unificato tra di loro. Queste esibizioni furono uno dei motivi per cui Kazovsky divenne famoso.
Sono stati tenuti a cadenza annuale, tra il 1977 e il 2001 e il numero di artisti in scena spaziava tra 4 a 22 e dovevano leggermente improvvisare. Quest’ultimi perdevano le loro identità di genere ed incarnavano ruoli androgini. Con questo, intendo che le esibizioni seguivano una coreografia e sceneggiatura ben precise, ma non venivano mai ripetute allo stesso modo. Lo stesso El Kazovsky saliva deliberatamente sul palco, indossando una maschera da tigre, intervenendo e recitando. Gli attori erano tutti alle prime armi ed alcune volte invitava anche i suoi più cari amici. Durante lo spettacolo, venivano letti estratti di opere dell’antica Grecia ma anche francesi, il tutto accompagnato da musica classica. Come già annunciato prima, questa esibizione aveva delle parti scenografiche fisse, e queste era il messaggio che El Kazovsky che recitava sia alla fine che all’inizio di ogni esibizione. Queste esibizioni, quasi celebrazioni, resero l’artista molto conosciuto nei circoli underground, e a partire dalla metà degli anni ’80, il pubblico aumentò di portata. Dopo la caduta del regime, queste esibizioni continuarono ad essere praticate.
Kazovsky stesso descriveva il Dzsan Panoptikum come dei giochi celebratori, istituiti da lui, per commemorare e celebrare ritualmente uno specifico evento: “Era come se fosse un sacrificio agli Dei, oppure la celebrazione del natale, che io tenetti ripetutamente ogni anno a partire dal 1977 […] Dzsan è un’antica parola persiana, che originariamente significa «Anima», ma che assunse successivamente il significato di «tesoro». Nella lingua turca è un nome che oggi si dà sia alle ragazze e ai ragazzi. […] Negli spettacoli non mostro persone specifiche, ma persone viventi che incarnano determinati ruoli culturali. […] Il Panoptikum è un “gioco sull’oggettivazione”. Nasce un idolo, e la sua anima viene lentamente consumata e distrutta. Successivamente viene eretto un memoriale che sostituisce il vecchio idolo. In sostanza, si dà vita alla storia di Pigmalione e Galatea. Il processo potrebbe essere svolto a ritroso, con una persona che viene posiziona viva sul piedistallo. C’è sempre anche un “pupazzo”, e c’è sempre un Pigmalione – e quel ruolo viene sempre ricoperto da me.”
Questa celebrazione può inoltre ricalcare un sentimento di intrappolato in un corpo non conforme a sé, e il successivo rifiorire in qualcosa di celestiale che ha un carattere di bellezza pura, fra l’ellenico mitologico e l’androgino. Lui stesso si definiva “ricolmo di una gioia sensuale” quando da bambina visitava l’Hermitage.
Uno dei messaggi onnipresenti nella vita artistica di Kazovsky era di denuncia verso le norme di genere sessuale umano che tutt’ora, nonostante l’avanzamento sociale umano, sono ancora governate dal codice binario donna-uomo. Questo, secondo l’artista, porta le persone a conformarsi, in modo quasi biologico, a un paradigma già preconfezionato per loro. Un esempio di tale messaggio è sicuramente la sua opera VÁGY-VÁGY (desiderio – desiderio) che rappresenta perfettamente la grottesca mostruosità della scelta, personificata in un animale a due teste. L’animale percorre una strada che alla fine porta ad un unione, ma che non riuscirà mai a percorrere. In ungherese, la lunghezza vocalica porta tratto distintivo, ergo se si legge VAGY-VAGY si ha congiunzione “o” (questo o quello). Questo è un chiaro riferimento alla bivalenza dei due generi, destinati a non incontrarsi mai e a rappresentare sempre degli universi distanti e divisi.
Il topos che accomuna i due artisti può essere quello della trasformazione e i processi correlati ad essa. In Kazovsky c’è sempre una distruzione che porta ad un compimento finale di essere nuovo. Invece, Király utilizzava i materiali più economici possibili per le sue creazione, in alcuni casi erano anche riciclati. I materiali non dovevano simboleggiare qualcosa di eterno, ma essere un tramite, fugace, per la realizzazione di qualcosa di intrinseco, e in qualche modo represso, dentro di noi. Basti pensare a come eravamo vestiti da adolescenti. quei capi per noi erano diramazioni del nostro essere sull’epidermide, un qualcosa che svelava aspetti di noi che magari nemmeno noi stessi ne eravamo a conoscenza. Király, lungimirante nei suoi lavori, rende consci della loro transitorietà e del pensiero che c’è dietro ogni singolo capo. Grazie ai suoi interventi nel mondo dello spettacolo teatrale e le sue passerelle in pieno giorno a Váci Utca (dove sfilò anche El Kazovsky stesso, indossando un Blazer con patches estratte da uno specchio, e ricucitegli sopra da Király stesso). Dalla strada della moda di Budapest, la moda scivola via dal suo ipotetico piedistallo delle passerelle aperte solo ai fotografi e modelle, ma entra nella vita di quotidiana. in questo caso, è come se diventasse parte di un atto molto più grande, uno spettacolo globale in cui tutti hanno possibilità di esprimere il proprio messaggio.