Identità e rivoluzione: la nuova scena musicale ucraina

Recentemente presso la Carnegie Hall di New York si è esibito il Coro Nazionale Ucraino per eseguire Ščedryk, opera meglio conosciuta come Carol of the Bell, la melodia natalizia famosa in tutto il mondo che pochi sanno essere di origine ucraina.

 

Il suo compositore era infatti Mykola Dmytrovyč Leontovyč e il concerto organizzato a New York ha voluto replicare la prima esibizione oltreoceano avvenuta nel 1922 e che, da lì a qualche anno, avrebbe consacrato la canzone a una fama di livello internazionale.

 

Allo stesso tempo, questo centenario ha significato per gli ucraini un’occasione per rivendicare l’origine nazionale della canzone, ribadendo così la propria ricchezza culturale e la forza identitaria, un tema per loro delicato più che mai. Non è un caso che questa melodia abbia ispirato, sempre quest’anno, un altro film dalla produzione polacco-ucraina, intitolato appunto Ščedryk, in cui la canzone fa da colonna sonora e da fil rouge che collega la tragica storia di tre famiglie (ebrea, polacca e ucraina) costrette ad attraversare il periodo nazista prima e quello sovietico poi. In questo film il processo di esaltazione identitaria della canzone è evidente a tal punto da sfiorare il patetico. Ma il concerto alla Carnegie Hall e il videomessaggio che la first lady ucraina ha tenuto per raccontare nuovamente l’origine della canzone, fanno capire come il messaggio identitario venga trasmesso in Ucraina anche attraverso la musica.

 

In questi cent’anni molte cose sono cambiate, altre però paiono essere ancora le stesse, solo ripresentate sotto altre forme e altri nomi: tra le cose rimaste inalterate c’è sicuramente il binomio Ucraina/musica.

 

 

Neofolk

 

 

Non è un caso che il bicolore giallo-azzurro sia comparso sul podio dell’Eurovision più di una volta negli ultimi vent’anni, l’ultima delle quali ha visto trionfare i Kalush Orchestra con Stefania, dopo il secondo posto ottenuto nel 2021 dai Go-A con la virale Šum. Prima di quest’anno, a portare a casa il microfono di cristallo erano state la cantante Ruslana nel 2004 con Wild Dances e nel 2016 Jamala con il brano 1944.

 

Ascoltando queste quattro canzoni è possibile individuare un minimo comune denominatore che suggerisce un po’ il nuovo corso intrapreso dalla nuova musica ucraina: il folclore.

 

L’incursione del folclore in musica non è certo un fenomeno della contemporaneità, ma è presente fin dall’alba dei tempi (o, per meglio dire, fin dalla nascita della nozione di folclore). In tempi moderni nella tradizione musicale ucraina si possono trovare degli accenni già nella musica del jazzista ucraino Igor Khoma, che si ispirava a motivi popolari per le sue composizioni (un esempio è Arkan, composizione per piano la cui musica è ispirata alla tradizione hutsula).

 

Ancora, negli anni ’90 il gruppo Mertvyj Piven di Leopoli unisce elementi folk a un sound rock: il gruppo è uno dei primi esperimenti rock realmente riusciti dell’Ucraina indipendente (insieme ai Braty Hadjukin, altro gruppo eclettico e leggendario). Alcune delle loro canzoni sono trasposizioni in musica di versi di poesie ucraine, come quelle di Serhij Žadan, Jurij Andruchovyč o dello stesso Taras Ševčenko (come l’album Zapovit, che rimanda al celebre Testamento del poeta nazionale ucraino).

 

Ma nel contesto della nuova musica ucraina gli artisti hanno innalzato l’elemento folcloristico a vero e proprio tratto identitario nazionale. Questo aspetto si presenta sotto varie forme: nella scelta di utilizzare strumenti musicali popolari, nello stile canoro, nel riadattamento di melodie popolari, fino all’utilizzo di costumi da scena e simboli tradizionali.

 

Il brano di Ruslana, ad esempio, si apre con il suono della trembìta, un corno lungo in legno principalmente utilizzato dalle etnie presenti sui Carpazi (in particolare quella hutsula) ma largamente diffuso anche in Romania. Il film Tini nezabutych predkiv (Le ombre degli avi dimenticati) del regista armeno-ucraino Sergej Paradžanov, ambientato proprio sulle montagne carpatiche, è tutto permeato dal suono di questo strumento.

 

Ancora, Jamala, ricordando la deportazione dei tatari di Crimea, utilizza il duduk, chiamato anche “l’oboe armeno”, proclamato patrimonio culturale immateriale dall’UNESCO nel 2008.

 

Le canzoni dei Kalush Orchestra e dei Go-A (gruppi che, tra l’altro, hanno in comune la partecipazione del musicista Ihor Didenčuk), sono caratterizzate da uno stile più fusion, in cui accanto ai motivi folcloristici si fa un ampio uso dell’elettronica e della musica rap, oltre all’accurata scelta di simboli e costumi. Se i Kalush inseriscono ampiamente strumenti a fiato come la sopilka (flauto in legno ucraino), i Go-A invece puntano di più sull’elaborazione di testi e melodie, riprendendo e riadattando in chiave contemporanea i canti popolari ucraini. È il caso della canzone Šum, il cui motivo è ripreso dalle Vesnjanki, canzoni popolari ucraine dedicate all’arrivo della primavera (vesnà in ucraino vuol dire primavera), tutt’ora cantante, insegnate e amate in tutto il Paese.

 

L’enorme patrimonio di canti popolari ucraini ha portato a un vero e proprio revival culturale, di cui si cerca di salvaguardarne il valore. A dimostrazione di ciò, nel 2018 è nato Polyphony Project, che consiste nella mappatura virtuale delle canzoni popolari presenti nel Paese e registrate direttamente dalle voci delle babusi, le nonnine ucraine che vivono nei villaggi. La naturalezza con cui questi canti vengono eseguiti lascia difficilmente indifferenti e avvalora ulteriormente il lavoro del progetto, che si configura come un vero e proprio archivio elettronico di un bene “immateriale”. Per chi fosse appassionato di canto, il sito è anche interattivo: è possibile cantare con loro, seguendo le parole del testo traslitterato in alfabeto latino e silenziando una o più voci per poter seguire la singola melodia.

 

Ma la prima vera sperimentazione della folktronica è da ritrovare in Katja Chilly: il suo album Rusalka in da House è un vero e proprio schiaffo al gusto dell’epoca, un esperimento audace, al confine tra innovazione e tradizione, arricchito dal sound degli ultimi anni ‘90.

 

Da questa esperienza si svilupperà quella tendenza a fondere folk ed elettronica che caratterizza adesso la scena artistica ucraina e che avrà una forte influenza soprattutto su Nata Žyžčenko, nome d’arte di ONUKA, vero e proprio fenomeno del neofolk ucraino.

 

 

 

 

Nipote di Oleksandr Šl’ončyk, celebre maestro di strumenti popolari (onuka/vnuka in ucraino vuol dire appunto nipote), ONUKA è in realtà un progetto che vede la collaborazione di giovani musicisti ucraini quali Daryna Sert, Marija Sorokina e Jevhen Jovenko. Quest’ultimo, in particolare, è un bandurista di professione: la bandura è uno strumento popolare ucraino dal suono simile a quello del liuto, che adesso è tornato in auge anche nella musica contemporanea. Lе canzoni di ONUKA utilizzano ampiamente questi strumenti popolari: esempio massimo è l’album Vidlik e la canzone omonima vede un brillante utilizzo del buhaj. Il buhaj è un cilindro di legno chiuso da un lato con pelle d’animale, al centro viene poi inserita una lunga e sottile coda di cavallo che, tirata, genera un profondo suono da basso: questo è quello che si può sentire in Vidlik, costruita tutta sulla linea di basso. Buhaj in ucraino in realtà vuol dire toro e il nome deriva dal suono profondo dello strumento che ricorda il verso di questo animale.

 

Troviamo le sperimentazioni musicali anche nell’ultimo album di ONUKA, che vede la collaborazione dei DakhaBrakha, altro pilastro fondante del neofolk ucraino.

 

I DakhaBrakha sono un progetto nato nel 2004 da un’idea di Vladyslav Troїc’kyj, direttore di Dakh, centro d’arte contemporanea di Kyїv fondato nel 1993. Il loro nome, oltre a essere un omaggio alla realtà artistica della capitale, rimanda anche all’antico modo di dire ucraino daty/braty, ossia dare e ricevere. Nel giro di pochi anni il gruppo è riuscito a ottenere un successo incredibile all’interno del Paese, diventando una vera e propria pietra miliare per la nuova rinascita musicale. La loro particolarità riguarda l’eterogeneità musicale (tutti i componenti sono polistrumentisti), la tecnica canora che va dal pop al canto popolare vero e proprio, tanto che il loro genere è da essi stessi definito come etno-caos. Le loro canzoni si ispirano principalmente a motivi popolari ucraini, russi e tataro-crimeani (per esempio, la loro Salgir Boyu è cantata in lingua tatara). Il progetto, inoltre, assume a tratti sfumature teatrali, a partire dalla scelta dei costumi: inconfondibili sono ormai i lunghi cappelli irsuti neri indossati dalle cantanti.

 

Una costola del progetto è il collettivo delle Dakh Daughters, composto da sette musiciste polistrumentiste: il progetto nasce nel 2012 e orbita sempre intorno al centro d’arte Dakh. Il loro repertorio alterna la recitazione al canto e si basa su testi in varie lingue (prevalentemente ucraino, inglese, francese, russo e tedesco). È diventata celebre la loro performance del dicembre 2013 durante le proteste di Euromajdan: nel video è interessante osservare la loro preparazione scenica, durante la quale le artiste si truccano e si vestono, rituale diventato parte integrante anche dei loro spettacoli e che avviene direttamente sul palco, davanti agli spettatori.

 

ONUKA, DakhaBrakha e le Dakh Daughters sono naturalmente solo alcuni dei nomi più rappresentativi dei progetti neofolk sorti negli ultimi anni. Altri artisti imprescindibili per ricoprire questo panorama sono sicuramente Alina Pash, candidata a rappresentare l’Ucraina all’Eurovision del 2022, il trio KAZKA (celebri per il singolo Plakala o Cry, il cui videoclip ha stabilito il record dei video in lingua ucraina con più visualizzazioni in assoluto), il duo Yuko e la meno celebre (per ora) Zitkani.

 

 

 

Doom, indie e dintorni

 

 

Anche la scena doom risulta essere particolarmente ricca e in voga, anche se purtroppo resta ancora poco conosciuta e apprezzata a livello internazionale. Alcuni dei suoi rappresentanti possiamo trovarli in Palindrom, che per la sua tendenza rap potrebbe piuttosto essere definito nu-doom; e ancora in Mistmorn e SadSvit, due progetti solisti le cui canzoni sono caratterizzate da sonorità decisamente più post-punk e lo-fi. Su questa scia a regnare sono sicuramente i Kurs Valüt, ensemble EBM originario di Dnipro nel 2017. I testi delle loro canzoni presentano meme ucraini e poesia filosofica in sonorità industrial: la canzone Veselo, ad esempio, si basa sulle parole del poeta Pavlo Tyčyna e Kurs Valüt, invece, propone parti della poesia Vsjakomu mistu – zvyčaj i prava di Hrigoryj Skovoroda, il filosofo ucraino per eccellenza (celebrato anche sulla banconota di 500 hrv), dal pensiero profondamente platonico.

 

Altri esempi degni di essere menzionati sono i Ferba Kingdom e Džosers (Джосерс), questi ultimi si collocano a cavallo tra il post-punk e l’indie.

 

La scena indie ucraina è sicuramente dominata da Odyn v Kanoe (letteralmente Da solo in canoa), ensemble originario di Leopoli formato dalla cantante Iryna Švajdak, il chitarrista Ustym Pochmurs’kyj e il percussionista Ihor Dzikovs’kyj. La canzone Čoven (La barca) è diventata un vero e proprio tormentone tra i giovani ucraini, tanto più che si tratta della trasposizione in musica dell’omonima poesia del poeta nazionale ucraino Ivan Franko.

 

 

 

 

Sulla scia di Odyn v kanoe vale la pena menzionare Khrystyna Solovyj: la cantante, diventata famosa nel 2013 per aver partecipato a Holos Kraїni (letteralmente La voce del Paese, il corrispettivo ucraino di The Voice), raggiunge il successo internazionale con il video della canzone Trymaj. Questa fa parte dell’album Žyva Voda (Acqua viva), che riprende motivi popolari dei lemchi, gruppo etnico slavo anche conosciuto come ruteni e presente soprattutto nella regione della Transcarpazia ucraina, ma diffuso anche in varie parti della Polonia e della Slovacchia. La scelta di dedicare un album a questa etnia è stata dettata dalla scoperta da parte della cantante di essere per un quarto lemka.

 

 

Kyïv come Berlino: Ravevival

 

 

Nel ricordare gli avvenimenti del 2013-2014, difficilmente gli ucraini utilizzano le espressioni Euromajdan, Majdan o Rivoluzione della Dignità, come invece accade qui in Occidente. Per gli ucraini il Majdan è stato semplicemente la Rivoluzione. Questo perché il Paese in trent’anni di rivoluzioni ne ha conosciute tre, ma l’ultima ha rappresentato un vero e proprio turning point che ha dettato un nuovo corso per la storia politica, economica e culturale ucraina. Non a caso, una delle cause che ha permesso lo sviluppo anche di una scena techno autoctona è stata proprio la Rivoluzione, e questo per due ragioni principali: da una parte c’era la generale sensazione di smarrimento e insicurezza provata da molti giovani di allora, unita al timore di un’incombente guerra su vasta scala (sì, sebbene fosse difficile crederlo anche per loro, gli ucraini, quanto sta accadendo ora, un po’ se lo aspettavano e lo temevano), che ha generato così un inconscio desiderio escapista; dall’altra il rifiuto di molti artisti internazionali di andare in Ucraina ad esibirsi, spaventati dall’instabilità politica del Paese. Questo doppio vacuum andava presto colmato: il suo antidoto sarebbe stato СХema.

 

 

 

 

CXema (pronunciato skhema) è un progetto sviluppato da Slava Lepšeev che, come tanti in Ucraina, dopo il Majdan si è ritrovato senza lavoro. CXema allora ha rappresentato per lui una valvola di sfogo: l’idea era quella di organizzare illegalmente vari rave party in luoghi abbandonati della capitale e così, nel giro di qualche mese, attraverso il passa parola e la distribuzione di flyer, il fenomeno ha conquistato tutta Kyїv, diffondendosi successivamente a macchia d’olio nel resto del Paese (Leopoli, Dnipro, Kharkiv, Ivano-Frankivs’k).

 

CXema letteralmente vuol dire schema, ma in senso traslato viene utilizzato per indicare una situazione di rischio (in russo zamutit’ skhemu vuol dire appunto fare qualcosa di rischioso), proprio perché all’inizio l’organizzazione dei rave comportava proprio questo: il rischio che la polizia arrivasse a sabotare la serata, la scommessa di non essere scoperti.

 

Il fenomeno è diventato virale ed è cresciuto a tal punto da richiamare l’attenzione di vari media internazionali, come testimoniano i reportage sulla subcultura ucraina realizzati da parte di i-D, che hanno contribuito a far conoscere il fenomeno anche in Occidente e a guadagnare alla capitale ucraina la denominazione di “nuova Berlino” (Kyїv – novyj Berlin, Kyїv è la nuova Berlino).

 

Ed è proprio sui palchi di CXema che alcuni dei dj ucraini più rinomati hanno iniziato la loro carriera. Fra questi c’è ad esempio Dmitrij Avksentiev, meglio conosciuto nel Paese come Koloah (Voin Oruwu) e che negli anni ha ottenuto varie collaborazioni con etichette internazionali; o ancora Nastya Muravyova, una potenziale Stella Bossi ucraina: giovanissima, originaria di Kyїv ma attualmente residente a Praga, si è esibita in Festival come Unsound a Cracovia, Pohoda Festival in Slovacchia, oltre ad essere ormai un’habituée a Berlino. Collabora inoltre attivamente con VESELKA, altra nuova realtà ucraina nata sull’esempio di CXema che si occupa di organizzare queer-party e serate LGBTQ+ friendly. Il nome del progetto rimanda alla parola ucraina che indica l’arcobaleno, in quanto lo scopo è quello di creare eventi in cui ognuno si possa sentire libero di esprimere se stesso senza essere discriminato, oltre naturalmente al divertimento (a sua volta la parola veselka contiene la stessa radice della parola ucraina per divertente, veselyj).

 

 

 

 

Il progetto, nato nel 2018, è legato ancora una volta alla città di Kyїv ed è frutto dell’iniziativa di S. A. Tweeman, nome d’arte del dj Stanislav Tviman.

 

Contemporaneamente alla nascita di un nuovo pubblico, l’Ucraina ha visto anche la comparsa di tanti hub alternativi pronti ad accogliere le nuove esigenze dei giovani. Fra questi è sicuramente da menzionare il club Closer, luogo iconico che si trova a Kyїv nel quartiere Podil, cuore storico della città e centro della movida ucraina, insieme al più recente ∄, il club “che non esiste”: aperto nel 2019, ∄ è conosciuto anche come K41 (dalle iniziali dell’indirizzo e del civico presso cui si trova, vul. Kyrylivs’ka 41) e ha sede in un edificio che si ispira al club Berghain di Berlino.  Il club segue la rigida e ossimorica politica dell’anonimato e della non-esistenza: il nome rimanda infatti al simbolo utilizzato nei calcoli matematici per indicare il valore di una formula che non esiste, come appunto questo club. Tutte le informazioni sui suoi eventi girano esclusivamente su vari canali Telegram o sul loro sito dove, dopo l’escalation in Ucraina, hanno lanciato un fondo comunitario per raccogliere donazioni e aiutare gli sfollati interni al paese. Nel fondo è anche possibile trovare una loro playlist legata all’etichetta associata al club, Standard Deviation.

 

Il fenomeno rave in Ucraina non è frutto esclusivo della rivoluzione, ma sicuramente ne ha costituito una rinascita. Anche nell’Ucraina pre-Majdan è possibile trovare esempi simili, in particolare dal 1993 al 2003 nella Repubblica di Konzatyp, uno dei primi e più grandi festival di musica elettronica nello spazio post-sovietico che aveva luogo sull’omonimo promontorio in Crimea, sul mar d’Azov, e che ha formato un’intera generazione di persone che, qualche anno dopo, i festival li avrebbe organizzati: dal 2014 in poi in Ucraina si farà fatica a stare dietro a tutti i festival, come ad esempio Стрічка (Strička, nastro in ucraino), Brave! Factory Fest, NextSound, per citare solo i più famosi e rimanere in tema clubbing. Per chi cerca più varietà c’è invece il GogolFest e il Leopolis Jazz Fest.

 

 

Guerra e musica

 

 

In seguito all’invasione russa su vasta scala, molti artisti (non solo legati al mondo della musica) hanno esplicitamente detto che non avrebbero partecipato a eventi in cui era prevista la presenza di russi che non si erano opposti al Cremlino, invitando gli organizzatori ad annullare i concerti. Ancora a giugno in Ucraina si discuteva di vietare la musica russa, decisione ufficialmente presa dal Parlamento ucraino lo scorso ottobre: da allora non sarà più possibile ascoltare musica russa sui mezzi di trasporto, nei luoghi pubblici e attraverso i media. Il divieto riguarda quegli artisti russi che non hanno denunciato pubblicamente l’aggressione contro l’Ucraina e che, in questo caso, sono finiti nella “lista nera”. Di contro, la legge prevede di aumentare la circolazione di musica in lingua ucraina: questo significa che i cantanti russofoni ucraini potranno comunque continuare a cantare in russo, ma il palinsesto delle radio deve coprire almeno il 75% di produzione in lingua ucraina.

 

Tuttavia, già dal 2014 il numero di parlanti ucraini è notevolmente aumentato e l’invasione del 24 febbraio non ha fatto altro che accelerare questo processo, con circa il %40 di ucraini russofoni che ha deciso di adottare la lingua ucraina come prima lingua. Tutte le canzoni uscite dal 24 febbraio in poi sono rigorosamente in lingua ucraina, come quella lanciata dalla musicista e producer TУЧА (Tuča, ossia Marija Tučka), che ha trasposto in musica quello che ormai è diventato lo slogan ucraino di questa guerra, russia is a terrorist state (russia scritta volontariamente con la lettera minuscola) o, recentemente, in occasione dell’anniversario delle Forze Armate Ucraine, fondate il 6 dicembre 1991, quella lanciata da Žadan i Sobaki, il gruppo ska del famoso scrittore Serhij Žadan, attivo sulla scena musicale ormai da vent’anni.

 

Questi due brani rappresentano naturalmente solo una goccia in mezzo all’oceano di canzoni prodotte quest’anno. Per chi è curioso di conoscere il resto, c’è una playlist in constante aggiornamento creata da Sluch, il principale media ucraino su musica e cultura fondato nel 2018.

 

È inevitabile che in seguito a questa guerra, “dopo la vittoria” (pislja peremogy), come sono soliti dire gli ucraini, la musica evolverà ancora in direzione contraria rispetto al raggio d’influenza russo, ma senza necessariamente avvicinarsi a quella occidentale. È bello forse pensare che tenderà piuttosto a ripiegarsi ancora su se stessa, continuando a seguire e a costruire uno stile autonomo e indipendente, aspirando a celebrare quell’identità che decideranno di costruire per sé: una dinamica che si può immaginare un po’ come il movimento di una ballerina che, concentrata nella ripetizione dell’esercizio, non fa che ruotare su se stessa in un turbine di piroette fino a raggiungere il suo criterio di perfezione.

 

Non occorre cercare su Spotify il nome di ogni artista citato in quest’articolo: ci abbiamo già pensato noi a creare una playlist sulla nuova musica ucraina (clicca qui!).

 

Nasoloždujetes’! Enjoy!

 

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