Due parole su Settembre 1972

Oravecz Imre è uno scrittore ungherese contemporaneo. E nella tipica, triste sorte che tocca fin troppo spesso ai suoi connazionali, è uno scrittore di cui in Italia si sa davvero poco, se non nulla. Per questo devo ringraziare fortemente Edizioni Anfora, sia per la pubblicazione di Settembre 1972, in originale 1972. Szeptember, che per avermelo fatto scoprire.

Sono una persona a cui non piace molto leggere. Nel senso che non ho più quel fervore nel divorare libri come facevo quando avevo quattordici, quindici anni. Ora c’è quasi un’aura di pesantezza intorno a loro, perciò sono diventato molto selettivo nella scelta di quelle poche opere che riesco a portarmi a leggere, forse anche perché sono inevitabilmente pigro.
Ma anticipando il giudizio finale, scelta probabilmente anticlimatica, questo testo mi è piaciuto un sacco.

Imre Oravecz

Devo confessare che non amo le biografie. Trovo sia impossibile inquadrare un autore nella sua interezza, specie in discorsi che esulano dalla sua opera. Pertanto, ho scelto di raccogliere ed esporre soltanto i punti che ritengo più salienti nell’esporre in maniera esaustiva la vita dell’autore.

Oravecz Imre nacque il 15 febbraio del 1943 a Szajla, un piccolo paese dell’Est-Ungheria, nella contea di Heves, abitato da poco più di cinquecento persone. Imre non è solo uno scrittore: è stato anche un docente universitario, oltre che più volte studente. Insegnò per due anni, dal 1974 al 1976 all’istituto di Lingue Straniere dell’Università Marx Károly di Scienze Economiche (quella che oggi viene chiamata Budapesti Corvinus Egyetem), successivamente nel 1976 si iscrisse all’Università dell’Illinois, dove studiò antropologia e linguistica, e fu professore ospite nel 1985-6 dell’università della California sotto programma Fulbright, dove insegnò poesia inglese ed tedesca.

Nel 1988 pubblicò sotto la casa editrice Magvető il libro Settembre 1972 (1972. Szeptember). Tra l’altro, da poco è uscita la nuova edizione del libro, sempre sotto case editrice Magvető, che contiene anche i giudizi positivi riscossi tra le fila della critica italiana.
Nel 1989 vinse il Premio József Attila per la letteratura, ma lo rifiutò per lettera scritta -il motivo mi è ignoto, non sono riuscito a reperire a riguardo nemmeno una fonte-. Ed infine, nel 1995 insegnò letteratura tedesca all’università Cattolica Pázmány Péter.
Oravecz passò parecchio tempo all’estero, forse anche per il periodo storico che stava affrontando l’Ungheria: dal 1949 al 1989 questa era infatti Repubblica Popolare Ungherese. La stabilità del paese non era delle migliori.

Settembre 1972

Possiamo ora parlare del libro, che come ho già detto ho apprezzato davvero molto. Innanzitutto posso asserire con assoluta certezza che Settembre 1972 non è un libro per tutti, ma penso che tutti dovrebbero leggerlo. Non è un testo semplice, anzi, tutt’altro: è ostico, farraginoso e molto ripetitivo. Ma chi riesce ad andare oltre questa selva di difficoltà sarà adeguatamente ricompensato.

Dopodiché, è bene puntualizzare che il libro non è stato scritto, si è formato. Oravecz, nella terza edizione ungherese del libro, afferma di non essersi sottoposto volontariamente alla scrittura, ma sembra che quest’ultima, sotto forma di insieme di pensum, negli anni, sia “sgorgata fuori” da lui. La raccolta e revisione di questi 99 pensa diede forma nel tempo a quello che oggi chiamiamo Settembre 1972. Il bisogno di distacco da ciò che è successo, distacco che l’autore ottiene magistralmente, lo fa affermare che oramai nemmeno lui è il protagonista, nonostante il libro sia narrato in prima persona, e la donna a cui il testo fa riferimento non è più Quella donna in questione, la cui identità si ritrova trascesa: ora può essere una donna qualsiasi, di più, negli occhi della donna di Oravecz sono riflesse migliaia di donne diverse, una per ogni lettore, ma con lo stesso significato.

La trama, che più che trama definirei filo conduttore dei pensa, è semplice: abbiamo l’inizio di una storia, la conoscenza, l’amore, il matrimonio e la rottura del rapporto. Come Oravecz, il protagonista si mette in disparte e procede ad effettuare un’autopsia à rebours nei suoi ricordi amorosi. Questo espediente narrativo, basato sulla prima persona, rende la lettura un’esperienza di iniziazione personale, in certi frangenti forse anche troppo intima. Ci si sente toccati, spinti, a momenti colpiti e spiazzati dalla naturalezza con cui Oravecz salmodia le sue (sono ancora sue, a questo punto, o forse del lettore?) interiora sulla carta. I pensa vengono dolcemente rilegati da una struttura “prosimetrica”, che mescola in sé con rara maestria i canoni della poesia confessionale ed espressiva.

L’autore stesso ha avuto modo di esprimersi riguardo al suo libro, al suo particolare stile ed al concepimento grazie ad una live effettuata sul canale di Andrea Pennywise insieme a  Vera Gheno, sociolinguista e traduttrice di Settembre 1972, e Mónika Szilágyi, editrice di Edizioni Anfora. Nella live, ancora disponibile su YouTube, Oravecz asserisce che il libro tratta di “una storia d’amore senza fine, ma che inaspettatamente finisce” e che lui stesso, verso la fine della ricomposizione di questi pensa, si accorse che non sarebbe stato giusto limitarsi a parlare unicamente della propria esperienza, ma di raccontarla come “una storia universale che tocca uniformemente le persone che hanno sofferto una rottura amorosa in modo tragico ed imprevedibile”. Lo scrittore spiega inoltre le particolarità della struttura compositiva del libro: il prosimetro e i pensa hanno lo scopo “non solo di raccontare la storia in un modo unico, mai visto prima nella storia della letteratura, ma anche di essere un espediente per avvicinare alla lettura chi è più abituato alla poesia”.

Infine, è stata toccata la questione della distanza sociale tra i modelli italiani ed ungheresi: come è stata maneggiata, anche dal punto di vista della traduzione, la trasposizione del modello sociale ungherese in italiano? Oravecz riprende la risposta data prima sull’universalità del racconto e amplia quanto precedentemente esplicato: “Quando si traduce in una lingua diversa, si traduce anche in una cultura diversa. Ci sono ovviamente delle discrepanze culturali ma ci sono, ovviamente, degli universali umani. Le persone pensano, tutto sommato, allo stesso modo e provano emozioni allo stesso modo, hanno reazioni simili alla gioia e al dolore, indipendentemente dalla lingua che parlano e dalla cultura in cui vivono”. La lingua delle storie d’amore, dunque, è nientemeno che la lingua dell’esperienza umana, che, pur declinandosi in plurime manifestazioni concrete, resta sempre inscritta negli archetipi eterni e universali di amore e di vita. E, probabilmente, per tale scopo non esiste forma scritta più appropriata della poesia. 

Peraltro, la scelta di salmodiare come verbo è sostenuta dal fatto che, in certi momenti, la lettura del libro può risultare ripetitiva e pesante, come se avessimo un macigno sul petto. La risposta di Oravecz dipinge magistralmente e senza filtri gli istinti e i meccanismi difensivi del comportamento umano: quante volte si rimugina e ci si arrovella su un errore più volte, ripercorrendo tutti i dettagli, le possibilità e le conseguenze nella disperata e affannosa ricerca della tanto agognata soluzione, additando persone, cause, questa o quell’altra scusa, il tutto per nascondere -vanamente- le nostre debolezze agli altri e a noi stessi, per vincere una pace effimera e consolatoria con la coscienza? Sempre. Ogni giorno. E Oravecz riesce a parlarne così bene che non posso fare altro che consigliarvelo. Ripeto, sarà un viaggio durissimo dentro di voi, ma ne uscirete migliori, o almeno si spera.

Sta di fatto che, anche nel dolore di una verità umana così difficile da accettare, Settembre 1972 resta uno dei migliori libri, ungheresi e non solo, che abbia mai letto.

(La fotografia dell’immagine in evidenza è della fotografa ungherese Andrea Kiss, artista delle foto di copertina delle pubblicazioni Anfora.)

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