L’ultimo bastione del buon senso: una difesa della Letteratura firmata Danilo Kiš

Di Danilo Kiš il lettore italiano poteva fruire della trilogia di romanzi – composta da Giardino, cenere, Dolori precoci e Clessidra – , Una tomba per Boris Davidovič, delle raccolte di racconti Enciclopedia dei morti, Il liuto e le cicatrici, e di Homo Poeticus – Saggi e interviste, unico volume che raccoglieva saggi ed interviste dello scrittore jugoslavo. Tutte le opere menzionate sono state pubblicate da Adelphi. La casa editrice Wojtek edizioni ha, invece, pubblicato L’ultimo bastione del buon senso, una raccolta inedita di saggi e discorsi fino ad ora sconosciuti al lettore italiano. Dallo scorso luglio, dunque, il lettore italiano ha il piacere di conoscere ulteriormente la dimensione saggistica di uno degli scrittori più rilevanti, proficui ed emblematici della letteratura slava meridionale.

 

La raccolta è stata tradotta da Anita Vuco, traduttrice dal serbo-croato, Membro d’Onore dell’Associazione dei traduttori editoriali della Serbia e Membro dell’Associazione dei traduttori letterari croati. Anita Vuco è direttrice dal 2021 della collana Mansarda per Infinito edizioni. La traduttrice, che ha conseguito un dottorato di ricerca in Filologia e letterature comparate dell’Europe centro-orientale con il titolo Danilo Kiš: l’enigma della lettera, non a caso ha deciso di intitolare la collana che dirige proprio con il nome del primo libro scritto da Kiš. Vuco è, quindi, profonda conoscitrice dell’opera completa di Kiš, infatti nella prefazione alla raccolta si legge che “rispetto all’edizione serba, inoltre, abbiamo scelto, insieme alla traduttrice, di dare al lettore italiano gli strumenti per fruire dei numerosi rimandi, impliciti o lacunosi, alla storia personale dell’autore.” 

 

Ciò che è estremamente apprezzabile e godibile di questo volume è proprio l’attenzione e la cura che lo caratterizzano, così da creare un insieme sì eterogeneo, ma estremamente coeso per comprendere sia i testi in esso contenuti sia il loro rapporto rispetto all’opera tutta di Kiš. Anche rispetto a Kiš stesso, alla sua evoluzione nella scrittura e nella vita. E specialmente per Kiš, la vita e la letteratura viaggiavano insieme, compagne sullo stesso sentiero. Non a caso, il primo saggio che apre la raccolta – con un titolo omonimo alla raccolta stessa – si apre con una nota bibliografica: “Io sono uno scrittore bastardo, venuto dal nulla. […] Se non ci fosse la nebbia delle mie origini mi chiedo quale ragione avrei per occuparmi di letteratura”.  

 

A tal proposito, nella prefazione del libro i curatori della raccolta invitano il lettore a riflettere sulla questione privata kišiana: “Ci colpisce la posizione della voce che prende la parola in questi testi: la storia delle forme diventa materia dello scrivere, i problemi della composizione sono questioni private”. L’intera trilogia era tratta da una materia di questione privata, composta dall’eredità genitoriale di Kiš che diventa materia letteraria. Come lo stesso scrittore dichiarò in una sua autobiografia (minuti di voce registrata così chiari e limpidi da sembrare un programma radio di notizie, ma allo stesso tempo pervasi da quell’atmosfera d’alta letteratura che Kiš era in grado di creare – egli aveva ereditato dalla madre il gusto per le leggende – ed in particolare leggende ambientate in Montenegro, terra di origine della madre di Kiš – e dal padre, invece, un’inclinazione al patetico e all’ironia.

 

Quell’ironia ebraica che si insinua nella penna dello scrittore jugoslavo: il padre, Eduard, era un ebreo ungherese, le cui tracce si persero ad Auschwitz insieme ad altri componenti della famiglia. Questo universo sommerso ebraico – così definito da Kiš sempre nel saggio che porta lo stesso nome dalla raccolta – è uno dei pilastri sia della prosa che della saggistica kišiana. Si può parlare di pilastri e di coerenza di Kiš: nella scrittura saggistica l’autore non si sottrae alla prosa letteraria, ne mantiene lo stile e vi rivendica i temi ricorrenti: oltre al mondo ebraico, l’eredità dei formalisti russi  – “gli ebrei nei miei libri non sono che letterarietà, straniamento come lo intendono i formalisti russi (ostranenie)” – e i molteplici temi legati al suo tempo, il Secolo breve, e non solo. L’Ultimo bastione del buon senso è, in effetti, un viaggio tra passato e presente, tra letteratura e vita, un’autentica miscellanea à la Kiš. Soggetto prediletto è la Letteratura, volutamente con L maiuscola poiché Kiš ne difendeva la sacralità in toto. 

 

Nel corso de L’ultimo bastione del buon senso Kiš descrive, ribadisce e insiste sulla qualità dell’opera letteraria e i parametri che un buon scrittore deve seguire, secondo l’opinione dello scrittore jugoslavo. Kiš non risparmia le critiche ai suo colleghi, scrittori suoi contemporanei ancora oggi considerati pietre miliari della letteratura europea e mondiale del XX, tra i quali Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir. 

 

Un atteggiamento, quello di Kiš, che superficialmente appare snob e cinico, ma che ricorda,  quello di colui che egli definisce il maestro: Vladimir Nabokov. L’obiettivo di Kiš non è un egocentrico lirismo, bensì una battaglia a spada tratta per la difesa della letteratura, che lo scrittore jugoslavo vedeva minacciata: “Come i surrealisti, ai loro tempi, divennero cantori molto realisti di Stalin, proprio loro, gli esploratori dell’universo dell’inconscio, dei sogni! […] Quante persone hanno preso questa scorciatoia intellettuale, senza dire una parola, come San Sartre, Santa Simone e compagnia bella”. Qui, con sarcasmo, Kiš si rivolge proprio a Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir, rei, secondo Kiš di aver reso servizio alla politica attraverso la letteratura. Essendone diventata un mezzo, essa ne fu corrotta: per lo scrittore jugoslavo, invece, la letteratura e la politica dovevano viaggiare su binari opposti. 

 

Ne L’ultimo bastione del buon senso Kiš si riferisce ad epoche e generi molto diversi tra loro, appositamente per dimostrare l’intoccabile unicità della letteratura: “Disprezzo sopra ogni cosa quel tipo di letteratura che si fa passare per minoritaria, qualunque sia la minoranza. Politica, etnica, sessuale. La letteratura è una e indivisibile. Buona o cattiva.” 

 

La letteratura, affinché non diventi  “ciarpame ideologico”, non si deve piegare alla politica e, dunque, deve continuare il suo cammino all’interno del suo binario: un binario infinito, eterno, in cui l’“epifania joyciana” rappresenta la quintessenza e prodotto primo della letteratura, un frammento di arte pura del quale il lettore può fruire in maniera del tutto totalizzante ed eternamente appagante.

 

Con la sua penna che quasi assume la funzione di un bisturi da chirurgo, Kiš seziona e analizza lo scheletro delle opere che tratta nei saggi di questa raccolta – da Andrić a Baudelaire, Cervantes e Rabelais per citarne alcuni – disvelandone la loro anima e portando il lettore a comprendere il loro intento ultimo, che Kiš mostra come si mostra un volto sotto ad una maschera. Un procedimento che tanto ricorda quello delle Lezioni di Nabokov, ma con l’aggiunta di quell’inconfondibile, raffinatissima, poetica e così profonda prosa dello scrittore jugoslavo. Una prosa che, come è stato scritto dai curatori nella prefazione, si adattava camaleonticamente ai diversi generi – romanzi, saggi, articoli – ma che non perdeva mai la sua natura, così squisitamente originale, incisiva, a tratti asciutta, e quasi onirica, poiché pareva sempre emergere da quelle “tenebre” dalle quali proveniva la stessa anima di Kiš. Un’anima segnata dalle catastrofi del Novecento, come quel “sommerso mondo ebraico” che vagheggia nell’opera di Kiš come una presenza eterea che ricorda i quadri di Chagall. 

 

Se la letteratura è musa de L’ultimo bastione del buon senso – e, in realtà, di tutta l’opera kišiana – Kiš è un Don Chisciotte che la difende da chi ne vuole distruggere la sacralità e il fine ultimo, dall’inesorabile Storia che gli esseri umani dirottano in maniera spietata e dalle tenebre che avvolgono il passato, rischiando di inghiottire le sue epifanie più luminose. Non si ha mai abbastanza di uno scrittore del calibro di Danilo Kiš, che non è mai venuto meno al compito di un vero scrittore: quello di sublimare la vita attraverso la letteratura senza arrecare il peso di un certo servilismo politico, il quale altro non fa che frantumare la bellezza delle epifanie, barlumi di bellezza della vita stessa.   

 

  

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