1945 e altre storie: racconti di male quotidiano nella letteratura di Gábor T. Szántó

Nella sua multiforme rappresentazione, il male è spesso stato percepito come cosa “altra” dall’uomo. Forza oscura, esterna ed estranea, che si aggira tra gli uomini per indebolirne lo spirito e comprometterne per sempre l’esistenza. Un male che non solo è racchiuso in un’entità assoluta, onnisciente e profondamente depravata, ma la cui esistenza avrebbe uno scopo ben preciso su questa terra: mirerebbe a elevarci e affinare spirito e mente. Questa visione fatalista degli eventi che vede l’uomo alle prese con continue prove che, se superate, lo condurranno a una conoscenza del mondo superiore, è ben radicata nel nostro sistema di credenze. L’umanità viene così ritratta nella vicenda di Sant’Antonio, persa nel deserto e sola contro il diavolo e la sua armata di mostri atti a tentarla e perseguitarla.  

 

L’esperienza di Auschwitz, però, ci ha rivelato qualcosa di ben diverso dall’immagine che la mitologia ci ha proposto per secoli interi. Qualcosa che nella sua linearità e semplicità risulta essere persino più tremendo del male a cui siamo abituati a pensare. È nota la descrizione che Hannah Arendt dà del male nel corso del processo Eichmann, della sua banalità. Ciò che il lettore tende però a non cogliere è che il male di cui Arendt parla non è un male generico, ma un male che appartiene in modo specifico al nostro tempo. L’essenza del male non è costituita dalla banalità, ma è il male burocrate, ben specifico e figlio di un contesto storico e sociologico particolare, a essere dolorosamente banale. 

 

Lo scrittore ungherese Gábor T. Szántó lo racconta perfettamente nella sua serie di racconti 1945 e altre storie, tradotta da Richárd Janczer e Mónika Szilágyi per Edizioni Anfora e adattata per il cinema dal regista Ferenc Török. Il male non è un entità fuori dall’uomo, indefinita, assoluta, ma specifica e assolutamente interiore. 

 

Già nel primo racconto che apre la raccolta, intitolato Il ritorno, in un mondo che ha ormai visto il male rientrare nei suoi spazi d’ombra e restituire alla luce il suo trono, l’arrivo di due stranieri provoca una sorta di psicosi negli abitanti del villaggio. Il ritorno, come lo stesso titolo sottolinea, è una chiamata di fronte al tribunale umano. La scelta di allinearsi a un sistema che normalizza la mercificazione e la degradazione degli uomini per semplice sopravvivenza non è sufficiente a giustificare l’adesione a questa ideologia. La mancanza di pensiero, la scelta di vedere l’altro come sacrificabile, ha generato un male con cui ora gli abitanti del villaggio non vogliono fare i conti. Anche se il male da loro attuato non è di tipo attivo, non per questo ha avuto conseguenze meno atroci nei confronti delle vittime. 

 

L’ostilità e l’angoscia che segue l’arrivo dei forestieri svela un radicato senso di colpa che sorprendentemente non apre le porte all’empatia e alla pietà, ma al contrario, smaschera tutta la mediocrità di un’umanità che non ha interesse per la sorte del prossimo quanto piuttosto alla propria reputazione. Se la società riconosce la mercificazione umana come moralmente accettabile, non è necessario allora interrogarsi a riguardo. L’unico personaggio a dimostrare autentico rimorso è il figlio del notaio che, non appena appreso del ritorno dei sopravvissuti al villaggio, lascia immediatamente la drogheria di cui sente di essersi ingiustamente appropriato.

 

Szántó non condanna queste persone banali, ma vuole semplicemente raccontare le loro storie di disarmante mediocrità e dei danni che questa può infliggere alle sue vittime. La malizia che caratterizza i pensieri degli abitanti viene rivelata nel momento in cui i due stranieri chiedono di essere portati al cimitero, dove seppelliscono millequattrocentodiciassette pezzi di sapone in memoria di tutte le persone deportate dalle aree circostanti. Quella che per un attimo può sembrare un’apertura all’empatia da parte degli abitanti si rivela immediatamente una mera prassi burocratica, e il notaio assicura ai due stranieri che si prenderà cura della sepoltura se adeguatamente finanziato. Difficile è per i due uomini nascondere il disgusto per la proposta dell’uomo, il cui atteggiamento dimostra come la fine della guerra e la consapevolezza degli avvenimenti consumatisi nei campi di concentramento non abbiano ristabilito alcuna forma di autentica empatia nei confronti delle vittime.

 

Quello a cui le società odierne hanno mirato è stata una riabilitazione morale della facciata pubblica, piuttosto che un’autentica azione atta a riscattare le vittime di questa atrocità. La vicenda dei due protagonisti di vita, in tranquillità, ne è esempio lampante. I due uomini, nel disperato tentativo di inchiodare degli ex nazisti, finiscono con l’essere accusati di ricatto. Uno si toglierà la vita, mentre l’altro morirà di infarto in carcere. La loro è stata una lotta vana, come vano è stato il dolore che hanno dovuto subire rispettivamente in battaglia e nel lager. Chi ha guadagnato qualcosa dal conflitto ha come solo interesse a preservarlo, mentre chi torna mutilato, derubato e isolato dalla società rimane tale, senza possibilità di riscatto. L’apparente catarsi che la società mette in atto cercando di riabilitare la sua credibilità di fronte al cittadino nulla ha a che fare con l’annientamento del male che si è inflitto senza ragione.

 

Anche la tendenza a idealizzare il dolore si rivela inutile tentativo di giustificare un male messo in atto senza motivo apparente. La poetessa Charlotte Delbo, nel suo Auschwitz et après, racconta come l’esperienza delle vittime e la sofferenza che li ha attraversati siano state tutt’altro che edificanti. Il tentativo di riabilitare la sofferenza per dare significato al male che si è vissuto diventa nullo di fronte agli avvenimenti di Auschwitz. Delbo ci consegna la terrificante consapevolezza che si può togliere tutto a un uomo, anche la facoltà di immaginare e sognare, e che nei campi di concentramento è stato possibile spezzare lo spirito umano e privarlo di tale facoltà immaginativa. La scrittrice francese, che visse sulla sua pelle l’esperienza concentrazionaria, ci ricorda come ad Auschwitz tutti fossero sempre in costante stato di delirio. Ciononostante, Delbo ritiene che attraverso il racconto del dolore si possano costruire ponti empatici tra le persone, quelle che hanno sofferto e anche quelle che la sofferenza l’hanno conosciuta attraverso le parole. Il male che si è consumato nei campi di concentramento è stato vano e la conoscenza che si è guadagnata da questa esperienza non necessaria, ma si può ancora sperare che un senso di comunanza possa affiorare tra gli esseri umani che ascoltano queste storie. 

 

I racconti di Gábor T. Szántó non si limitano a raccontare l’Ungheria nelle sue vicende immediatamente successive alla guerra, ma ci offrono anche uno spaccato della questione legata alla sessualità che, in molti casi, appare simile ad altre realtà europee. Nel racconto Mirko e Marion viene raccontata l’omosessualità vissuta come depravazione. Così, alle soglie di un nuovo anno, il tentativo di un uomo di avvicinarsi a un altro uomo finirà con l’uccidere due dei tre protagonisti della vicenda.

 

Marion, la donna amata dal protagonista e ossessionata dal decadimento della sua bellezza, finirà con l’essere derubata della sua femminilità da un tumore al seno. Mirko, l’uomo innamorato del protagonista, verrà totalmente estirpato dalla vita di quest’ultimo nel tentativo di lavare via la colpa. Finirà con lo sposarsi e lo sparire poco dopo, lasciando un senso di vuoto devastante nel protagonista. Consapevole che la morte dei suoi due compagni lo ha lasciato solo con la sua colpa, il narratore della vicenda non può fare altro che sperare di essere divorato dal male che lo tormenta. Definisce la passione che ha condiviso con le persone che ha amato infettiva a tal punto da aver invalidato la sua vita, e il desiderio innocente di amore dei tre viene demonizzato al punto da avere condotto le loro esistenze alla rovina. 

 

Nel racconto Trans il protagonista a cui viene, non a caso, scelto il nome di Ádám, cerca di conciliare la sua sessualità con la dottrina contenuta nel Talmud. Squarciato nella sua identità da un sogno che lo vede nelle vesti di una sposa, il giovane sarà sottoposto a un estenuante processo di analisi che gli permetterà di riappropriarsi della sua vera identità senza rinunciare alla sua “ebraicità”. Ádám è in tutti i sensi un novello Adamo atto a riplasmare se stesso. Attraverso la vicenda di Ádám, Szántó ci racconta il rifiuto delle autorità religiose di separare i testi sacri dalla visione culturale di un popolo in un dato momento storico. Ádám non riplasma solo se stesso, ma restituisce alla religione la sua plasticità, e il suo atto non va interpretato come distorsione della dottrina, dal momento che viene attuato da chi conosce perfettamente e profondamente le scritture sacre, ma come comprensione a più livelli di un sistema di credenze estremamente complesso. 

 

I personaggi dei racconti di Szántó sono spesso degli sconfitti, vittime di un male becero, che rende polvere le esistenze degli uomini. Le vicende raccontate però non sono totalmente prive di speranza. Esiste un’unione silenziosa tra gli uomini che può rivelarsi salvifica. È quel sottile legame che intercorre in chi vede nell’altro se stesso in quanto essere umano. Attraverso il racconto che Szántó fa dell’uomo c’è la consapevolezza che è possibile vincere la mediocrità, raccontandola nelle sue varie sfaccettature.

 

Leggendo queste storie si evince un senso di tenerezza verso l’essere umano che sta ancora cercando di appropriarsi definitivamente della propria umanità. È un essere umano che fatica a riconoscersi in quanto tale. La sua mancanza di conoscenza non gli permette di riconoscere anche gli altri in quanto umani e pertanto non è mosso da alcun senso di empatia nei loro confronti. Il suo essere “tante cose” lo terrorizza, la fallacità del suo corpo lo disgusta, per questo cerca di costruire attorno a sé una visione del mondo univoca che lo possa fare sentire al sicuro. Il più delle volte però questa rigida cosmologia finisce per mutilarlo, perché incapace di racchiudere l’uomo nella sua variegata natura. Il mondo però non può essere racchiuso nel binomio bianco nero e così anche la natura dell’uomo, che, ancora oggi però fatica ad accettarsi nella sua complessità. 

 

 

 

Bibliografia 

 

  • Hannah Arendt, la banalità del male: Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, 2019
  • Charlotte Debo, Auschwitz and after, Yale Univ Pr, 1997
  • Jennifer L. Geddes, Banal Evil and Useless Knowledge: Hannah Arendt and Charlotte Delbo on Evil after the Holocaust, Hypatia, Vol. 18, No. 1, Feminist Philosophy and the Problem of Evil (Winter, 2003), pp. 104-115