Il minatore di Husino: Branko Šimić tra agit-pop e rivoluzione

Se si pensa alla storia della lotta operaia nei Balcani, è impossibile non avere in mente il minatore di Husino, simbolo della rivoluzione di 7000 lavoratori contro lo sfruttamento degli industriali. Lo sciopero dei minatori del 1920, sfociato in rivolta armata e represso infine nel sangue dalle autorità locali, è una memoria ancora viva nelle terre ex-jugoslave, come testimoniato anche dallo spomenik eretto a Tuzla nel 1956 per commemorare l’evento.

 

Può un simbolo come il minatore di Husino essere ancora attuale? Se lo sfruttamento dei lavoratori è ancora una realtà, è possibile reinterpretare la storia per dimostrare nuovamente l’urgenza di una presa di posizione di fronte alle disuguaglianze? 

 

È questa la base da cui parte la ricerca di Branko Šimić, regista, attore e performer di Amburgo di origini bosniache che, in occasione del centenario della rivolta, ha lavorato sulla figura del minatore per interrogarsi sulle possibilità politiche del teatro e dell’immaginazione. Il risultato è Il minatore di Husino, performance che con la commistione di realismo socialista e disco music fa eco al celebre assunto di Emma Goldman “se non posso ballare non è la mia rivoluzione”.

 

Abbiamo avuto modo di fare quattro chiacchiere con l’artista durante il POLIS Teatro Festival di Ravenna, dove ha portato in scena il suo Minatore. Ringraziamo Anida Poljac per il lavoro di interpretariato durante la conversazione.

 

 

Ciao, Branko! Innanzitutto presentati, parlaci un po’ in generale del tuo lavoro e del tuo percorso come artista. 

 

Sono nato in Bosnia, a Tuzla, vicino Husino, che è il tema della performance ed è ormai diventato parte della mitologia locale. Ho poi studiato all’Akademija Scenskih Umjetnosti di Sarajevo, ma allo scoppio della guerra in Jugoslavia nel 1992 sono emigrato in Germania, ad Amburgo. All’inizio ho svolto dei lavori umili, anche pesanti, poi ho creato un collettivo con delle persone sul posto e mi sono iscritto all’esame per regia teatrale alla Theaterakademie di Amburgo. Sono stato il primo straniero a essere stato preso in accademia come regista teatrale, ed è stato un grande salto: sono passato da profugo di guerra a uno dei primi studenti di regia e di teatro in una città come Amburgo.

 

Di cosa si sono occupati i tuoi primi progetti? 

 

Come dicevo anche ieri alla conferenza stampa, mi sono sempre occupato di teatro e innovazione. Sono sempre alla ricerca del germe del significato, del teatro e dell’azione. Del resto trovo sia inutile lavorare o fare ricerche su qualcosa di già visto e obsoleto. Il mio obiettivo è creare qualcosa di nuovo e di sperimentale, qualcosa di imprevisto, che parta non da un momento di innovazione di per sé, ma da un elemento del passato che può essere ancora attuale. Gli anni universitari sono stati un momento di grande ispirazione e creatività, in cui ho riletto molti testi classici cercando di tracciare dei paralleli con l’attualità, la società e la politica.

 

Puoi farci qualche esempio?

 

Ho sempre apprezzato la lettura dei classici. Ho avuto la fortuna di aver avuto due professori, Dzevad Karahasan all’Università di Sarajevo e Manfred Brauneck all’Università di Amburgo, che avevano entrambi la capacità incredible di spiegare non soltanto le complessità della trama, ma anche le circostanze sociopolitiche in cui i testi erano stati scritti. È stato grazie a loro se ho imparato che attraverso il teatro e la storia della drammaturgia si può ricostruire la storia della civiltà umana.

 

Per fare un esempio concreto, ho messo in scena più volte il racconto di Kafka Una relazione per un’accademia. Il lavoro sul testo non si è esaurito nell’attualizzazione al contesto sociale e politico, ad avvicinarmi al racconto è stata anche una motivazione intima, personale, cioè l’estraneità di un attore, di un artista.

 

Da dov’è partita l’idea di lavorare sulla figura storica del minatore di Husino? Come hai lavorato sulla memoria della rivolta e come sei arrivato al risultato finale?

 

Sono sempre stato molto vicino ai diritti dei lavoratori e ai diritti umani, e ovviamente venendo da Tuzla conoscevo bene la storia. L’occasione per rielaborarla è arrivata con il centenario della rivolta di Husino, che si è svolto nel 2020. Un ruolo importantissimo l’ha ricoperto Ljubiša Veljković, il direttore del Museo della Bosnia orientale: volevamo mettere in piedi qualcosa che andasse oltre le solite celebrazioni delle ricorrenze, così abbiamo cercato di uscire dalle convenzioni formali del realismo socialista e attualizzare la storia del Minatore nella contemporaneità. Quello del Minatore è sempre stato un mito legato al realismo socialista, ma non volevamo che perdesse di valore e di importanza dopo la caduta della Jugoslavia. Così abbiamo cercato di renderlo eterno.

 

Ci sono stati degli artisti che ti hanno influenzato? La tua esperienza di migrazione tra Bosnia e Germania ha sicuramente comportato un ampliamento dei punti di riferimento culturali, letterari e artistici che già avevi, completamente diversi da quelli di un tedesco. E anche, immagino, una fusione tra le due culture.

 

Sono un fervente sostenitore della commistione delle culture. È per questo motivo che nel 2012 ho fondato il KRASS Festival, in cui portiamo sulla scena solo progetti che abbiano al loro interno influenze di più di una cultura. A questo proposito, ho avuto due esperienze completamente diverse: sono cresciuto in Bosnia, dove il multiculturalismo e il multiconfessionalismo sono emersi in maniera organica, perché lì le religioni e le culture si sono incontrate e nel corso dei secoli hanno formato una cultura raffinata ma anche fragile. In Germania, invece, il multiculturalismo si è costruito con la migrazione, soprattutto quella dei lavoratori. Non riuscirei a immaginarmi una vita in un Paese o in una città monoculturali. 

 

Ieri sera, durante l’incontro, hai parlato di come attraverso la scelta della disco music hai portato all’interno del mito di Husino anche parte della cultura afroamericana. A una prima occhiata disco music e realismo socialista sembrerebbero incompatibili, ma hai unito questi elementi raccontando le storie di resistenza che li accomunano.    

 

Sì, ancora oggi ci sono troppe situazioni in cui le persone vengono sfruttate, e volevo che il simbolo della rivolta operaia andasse oltre la storia della Bosnia e degli anni Venti. Attraverso la commistione culturale ho voluto renderlo un simbolo da poter applicare anche a tutte le situazioni di oggi in cui ci sono sfruttamenti dei lavoratori e dei ceti popolari. 

 

Questa commistione di estetica comunista e cultura underground era presente anche negli anni della tua formazione in Bosnia? Se sì, quali sono state le tue esperienze con le sottoculture locali di Tuzla e Husino in quegli anni?

 

I movimenti underground nella Jugoslavia socialista sono stati di estrema importanza per il mio percorso. Sono stato influenzato dal punk e dalla New Wave jugoslava. Erano la forma di resistenza più efficace e in quelle zone avevano un significato più profondo che in Occidente. Gli elementi underground della Jugoslavia si trovavano anche nella letteratura, nel teatro, nel cinema e nelle arti visive. Questo fenomeno era a tutti gli effetti un prodotto jugoslavo, ma con la dissoluzione della Federazione è in gran parte scomparso.

 

 

Šimić durante l’edizione 2022 del KRASS Festival

 

 

The revolution will not be televised, diceva la canzone. Nella parte finale del testo della performance, però, esorti il pubblico a scattarsi un selfie con il Minatore. Il dibattito su politica e social è complesso, perché se da un lato hai la possibilità di avere accesso costante alle informazioni e alle strategie di resistenza, dall’altro c’è il rischio di individualizzare, appiattire o mercificare le lotte. Il tuo atteggiamento, però, sembra essere ottimista, e si riflette nei colori accesi e dalla musica dello spettacolo.

 

A questa domanda rispondo con la compresenza di due sentimenti contraddittori: nel mio piccolo sono piuttosto ottimista, mentre per quanto riguarda la mia visione del mondo, be’, sono sempre stato un pessimista. In tedesco c’è una parola splendida e assolutamente calzante: Weltschmerz!

 

La reazione del pubblico qual è stata? È stata diversa in Paesi che avevano meno familiarità con il contesto o gli spettatori hanno subito empatizzato con la tematica anche se si serviva di un simbolo a loro estraneo?

 

Anche quando l’abbiamo messo in scena in altri contesti (l’abbiamo portato anche ad Amburgo, al Kosovo Theatre Showcase di Pristina e all’Akto Festival di Skopje) la reazione è stata più o meno la stessa. Il tema è quello del movimento operaio che ha avuto lotte analoghe in altri Paesi, quindi il pubblico si è rispecchiato in questi valori comuni e ha provato le stesse emozioni anche in situazioni e contesti sociali e geografici diversi. C’è la tematica dei diritti umani, la globalizzazione, le migrazioni, il capitalismo, non è qualcosa che si applica solo a Tuzla. È un fatto internazionale in qualsiasi contesto segnato da processi migratori.

 

Ne parli anche nella performance: “C’è stato uno scambio tra persone e parole: persone che vanno da Est a Ovest e parole luminose che vanno da Ovest a Est!”. Puoi spiegarci meglio questo passaggio? 

 

È stato un processo brutale, ma che è quasi passato inosservato. Dopo il crollo del socialismo in Est Europa, le banche e le aziende si sono infiltrate a Est con il loro capitale. Così facendo hanno indebolito del tutto l’economia già esistente in quei Paesi. Con l’impoverimento graduale delle nazioni esteuropee, si sono presi quello che gli serviva, ossia la forza lavoro. Anche le nuove élite nazionaliste emerse a est sono in gran parte responsabili di questo fenomeno. Hanno svenduto i loro Paesi arricchendo soltanto se stessi. È un circolo vizioso di cui vivremo le conseguenze per molto tempo.

 

Negli ultimi anni si è risvegliato un nuovo interesse per il cosiddetto blocco Est, unito a una crescente estetizzazione o commercializzazione dell’esperienza socialista nei paesi occidentali. Si tratta, ovviamente, di qualcosa di diverso dall’esperienza di chi è cresciuto lì. Temi l’appropriazione di questi simboli da parte del capitalismo o pensi che la loro crescente popolarità sia una forma di simpatia per le idee e le convinzioni politiche che li hanno generati? I tempi sono finalmente maturi per un nuovo immaginario libero dal consumismo?

 

Non credo che il capitalismo occidentale e i nazionalismi dell’Europa orientale siano capaci di processi costruttivi. Come ho formulato nella mia performance: questo è possibile solo nella nostra immaginazione, cioè nell’arte.

 

In un’intervista citi Heiner Müller dicendo che “la rilevanza dell’arte sta nel futuro”. Questa dimensione è centrale nella performance, che collega passato e futuro attraverso un simbolo di azione per i diritti dei lavoratori. Come hai detto, i morti di oggi sono ancora la classe operaia che sembriamo dimenticare, i migranti, gli sfruttati, gli oppressi che si sono rivolti a destra. C’è un detto lacaniano, spesso citato da Žižek, che dice che “Dio non è morto, è inconscio”. Pensi che valga anche per la classe oppressa? Non è morta, è solo inconsapevole del suo vero potenziale, dei suoi ideali e della possibilità reale di una rivoluzione?

 

Il problema è che c’è stato un cambio di ideologia. La classe operaia di oggi non ha più idee progressiste. Sono diventati in gran parte nazionalisti e clericali e sono chiusi nel loro microcosmo. Al tempo stesso è controllata dal grande capitale e dalle corporazioni, e finché sarà così non sarà possibile alcun cambiamento.

 

Nelle ultime frasi parli delle possibilità di trasformazione dell’arte, e anche nel corso del festival abbiamo visto una forte presenza di teatro molto politico. Cosa pensi che renda il teatro il campo ideale per la sperimentazione e la conversazione radicale? 

 

Credo molto nel potere sovversivo del teatro. Viviamo in un mondo che vuole annullare la nostra essenza narrativa. Chi cerca di ridurci a esseri pratici e razionali, di fare di noi dei consumatori ideali, commette un grosso errore. Dobbiamo coltivare la nostra resilienza e la nostra dimensione narrativa, soprattutto attraverso il teatro.

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