Transilvania e tappeti orientali, una storia d’amore vecchia di secoli

Vampiri assetati di sangue, vecchie megere a caccia di bambini e mostri che spuntano da ogni angolo: per colpa di Bram Stoker siamo abituati a pensare alla Transilvania come a una terra senza dio né regole, con una manciata di villaggi sperduti sulle cime dei Carpazi e nulla più. Invece questa grande regione della Romania è un mosaico di tradizioni e culture diverse, un territorio che nel corso del tempo è stato conteso da re ed eserciti e che ha un grande passato. Oltre ad avere una cucina pazzesca, che attinge a piene mani dalle popolazioni locali tra un goulasch ungherese e un caffè orientale al bricco, la Transilvania nasconde una storia che ha a che fare con il villain per eccellenza dei Paesi di quest’angolo d’Europa: l’impero ottomano. 

 

Ma cosa hanno lasciato i turchi di così particolare, in Transilvania? Il sultano controlla dalla fine del XVI secolo tutta la regione, che ha conquistato al regno d’Ungheria, per poco più di un centinaio d’anni; non è una sovranità diretta, ma un controllo sui governatori e sulle tasse che nei fatti rende il principato abbastanza indipendente, quindi niente giannizzeri in zona né moschee volute da qualche gran visir. È per questo che il vero contatto con la cultura turca passa attraverso il commercio: piazzata com’è tra i Balcani, la Mitteleuropa e il mondo mediterraneo, la Transilvania si vede passare davanti tantissimi prodotti tessili. Oltre alle tuniche e la seta arrivano un sacco di tappeti e di kilim, che superano le dogane oppure vengono comprati direttamente dai transilvani.

 

La società di quel periodo era molto più stratificata rispetto a quella di oggi, che bene o male è in maggioranza romena. Nella Transilvania del Seicento avevano peso nella vita pubblica altre due popolazioni: gli ungheresi e i sassoni abitavano nei centri più grandi come Oradea, Cluj-Napoca e Brașov, erano commercianti e artigiani e insomma avevano la meglio sui romeni, che di solito abitavano in campagna o comunque fuori città. Ecco perché il nome storico della Transilvania, Siebenbürgen, è una parola tedesca; si può tradurre “sette colli”, come sullo stemma dei sassoni con sette colline e una torre merlata in cima. Questo gruppo etnico viveva nella regione almeno dal XII secolo, periodo di migrazione dei tedeschi verso Est. C’entra la leggenda del pifferaio di Hamelin: i bimbi, stregati dal suono del flauto, si sarebbero fermati proprio in Transilvania.

 

 

 

 

È grazie ai sassoni che in questa regione è stata raccolta la più grande quantità di tappeti turchi fuori dall’Anatolia. Il segreto sta nella scelta di conservarli dentro le loro chiese, come arredi per le l’altare, il coro e le navate. È stato uno studioso romeno, Stefano Ionescu, a occuparsi in modo approfondito di questi tappeti, sparsi nelle chiese transilvane e nei musei di tutto il Paese; in Antichi tappeti ottomani in Transilvania li ha raccolti e studiati fondo, insieme ad altri esperti. Con Andrei Kertesz, Ionescu si è chiesto come mai tutto questo patrimonio sia arrivato fino a noi, e prova a considerare le possibili cause. La fuga dei funzionari turchi, che lasciano i loro tappeti nella regione, è la meno sensata: tanto più che in Transilvania i pascià nemmeno abitavano. È poco probabile anche una produzione di tappeti apposta per le chiese, visto che erano sempre donati e comunque esportati dalla Turchia, mai prodotti in zona.

 

Alla fine, la spiegazione più convincente è semplice e bella. Intanto che gli ottomani, tra una conquista e l’altra, arrivavano fino alla Transilvania, in tutta Europa la riforma di Martin Lutero si stava diffondendo; erano le popolazioni germaniche a venire influenzate maggiormente, vuoi per la vicinanza geografica alla Wittenberg delle Novantacinque tesi o per l’affinità culturale. La dottrina luterana portava avanti la distruzione delle immagini sacre; i luoghi di culto dovevano essere spogli, senza scene di santi o crocifissioni varie. Ecco allora che la Basilica Nera di Brașov, quella di Santa Margherita a Mediaș e tante altre chiese protestanti e luterane di Transilvania cominciano a essere riempite di tappeti: visto che non hanno figure umane, sono la decorazione perfetta. I sassoni hanno colto la spiritualità profonda del tappeto da preghiera e l’hanno rispettata, con una mentalità davvero moderna rispetto ai tempi che correvano e che, in fondo, corrono ancora oggi.

 

Questi tappeti transilvani sono una festa per gli occhi. I fondi in rosso carminio, ocra e blu cobalto sono incorniciati da volute color oro, le geometrie complesse si sviluppano in arabeschi. Già gli artisti della vecchia Europa andavano pazzi per l’arte tessile dell’impero ottomano: il tappeto ushak viene chiamato addirittura Lotto o Holbein, per i pittori che amavano inserirlo nei loro quadri. Del resto i tappeti hanno una bellezza senza tempo che li ha fatti sopravvivere ben oltre il dominio turco, attraverso l’Austria-Ungheria e fino alla Romania di oggi; ci parlano delle mani che li hanno tessuti, di quelle che li hanno venduti e comprati di città in città, di regione in regione, di popolo in popolo. Ha ragione Ionescu, quando parla di un “fenomeno interculturale unico”: vederli in mostra, com’è capitato negli scorsi anni a Roma, Berlino e Istanbul, fa scoprire qualcosa di davvero straordinario. E se non altro, ci si può fare un giro in Transilvania per goderseli nella loro casa.

 

 

Per saperne di più:

  • Antichi tappeti ottomani in Transilvania, a cura di Stefano Ionescu, edito da Verduci, 2005.
  • Storie e leggende della Transilvania, a cura di Claudio Mutti, edito da Mondadori, 1997.
  • Viaggio in Transilvania alla scoperta dei tappeti ottomani, intervento a cura di Stefano Ionescu, 2019, https://www.youtube.com/watch?v=nuDyqx26Q6M